In queste ultime settimane circola sul web una petizione sulla piattaforma change.org diretta al Presidente della Repubblica Mattarella, al Parlamento e al CSM dal nome “Questo non è il paese che vogliamo”. Numerose associazioni femministe, centri anti-violenza, centri di studi di genere, promotrici dei diritti LGBTQ+, ed altri ancora, l’hanno sottoscritta al fine di condannare le offese al decoro e all’onore che hanno preso di mira le donne, direttamente o indirettamente coinvolte, nell’ultimo noto caso della Sea Watch. Quello della giovane capitana tedesca Carola Rackete, la quale è solo una delle numerose vittime di sesso femminile di un’escalation di aggressività e violenza verbale che si manifesta tramite il muro protettore dei social media.
“Ti devono stuprare i neri”
“Spero che ti violentino sti negri”
le è stato gridato in un video che circola su youtube.
L’immagine della donna violentata continua ad essere lo stigma indelebile usato per minacciare e mortificare. Essa non fa che alimentare l’idea misogena dell’uso del corpo della donna. Tutte coloro che si sono dichiarate a fianco della giovane capitana sono state pesantemente insultate, da Emma Marrone a cui già mesi fa era stato consigliato di “aprire le gambe”, alla GIP che non ha convalidato l’arresto della capitana, arrivando persino a Giorgia Meloni, per aver tenuto invece la posizione opposta.
“Puttana ti ammazziamo”
è stato minacciato alla GIP.
Gli insulti per fare davvero male ed essere davvero umilianti colpiscono spesso la sfera sessuale, intima o il corpo stesso della donna.
Hate speech e social media
Vigliacchi che mandano auguri di violenza fisica alle donne in incognito, spesso sotto falso nome e consapevoli dell’indulgenza ed impunità del mondo dei social. L’affermazione del potere maschile per l’annientamento psicologico della figura femminile, tramite l’intimidazione, esiste da sempre e si è adeguata all’arrivo della tecnologia. I social media sono diventati un vero e proprio campo di battaglia, in cui i più deboli si sentono forti, combattendo una guerra a colpi di pesanti insulti.
Questo fenomeno non è nuovo, la ex presidentessa della Camera Laura Boldrini lo sa bene, in quanto è stata bersaglio di commenti sessisti da parte dei suoi avversari, notoriamente maschi e leghisti, per tutta la legislatura scorsa. Essa è diventata simbolo della reazione pacifica, che l’ha portata di recente ad esultare per la condanna dei colpevoli. L’identikit del bersaglio perfetto per gli hate speech sui social fa parte indubbiamente delle categorie considerate deboli, dall’immigrato alle donne, meglio ancora se si permettono di dissentire, di spezzare le catene degli stereotipi ai quali sono da sempre rilegati.
“In Italia cresce la violenza contro le donne che fanno di testa propria”,
ha affermato Dacia Maraini.
La Francia ha recentemente proposto una legge per contrastare l’odio online e ha iniziato una discussione parlamentare a riguardo presso l’Assemblea nazionale, lo scorso 3 luglio. Gli Stati Uniti, nella giornata del 17 luglio, hanno approvato una risoluzione presso la Camera (su volontà della maggioranza democratica) che condanna i recenti commenti razzisti e sessisti rivolti da Trump alle donne democratiche appartenenti alle minoranze. Il Presidente si era infatti rivolto in modo offensivo verso le deputate Alexandria Ocasio-Cortez, Rashida Tlaib, Ayanna Pressley e Ilhan Omar, in quanto donne americane (3 su 4 nate negli USA), ma di origine straniera.
“Odiate il nostro Paese, potete pure andarvene”
aveva twittato Trump.
Il confine tra la libertà di espressione e discorsi di odio spesso non è così netto e questo pone non pochi problemi nell’affrontare la questione. Ciò soprattutto quando la cultura del rispetto viene calpestata in nome di una incondizionata libertà di espressione dai modi e termini che hanno il solo fine di offendere.
Amnesty International denuncia che 1 contenuto su 10 online contiene affermazioni discriminatorie ed offensive. Ciò non è che lo specchio di una società che si sente libera di dire e fare quello che vuole, nascondendosi dietro il potente strumento del web, che per troppi anni è rimasto incontrollato e sottovalutato. Ciò ha fatto emergere, nonché incentivato, un regresso culturale ormai evidente. Sta passando l’idea che per avere un proprio momento di gloria sui social è importante affinare la propria tecnica di insulti da condividere. E più persone lo fanno, più tale atteggiamento viene tollerato. Ci sentiamo tuttavia affetti da un confuso bipolarismo: ci indigniamo, purtroppo quasi quotidianamente, sentendo al telegiornale notizie di femminicidi, ma allo stesso tempo tolleriamo e alimentiamo con il nostro linguaggio discriminatorio proprio quella stessa disuguaglianza tra sessi, qualora per di più il sesso opposto non la pensi come noi.
Da ultimo, il sottosegretario Vincenzo Spadafora, con delega per le pari opportunità, ha espresso preoccupazione riguardo la deriva sessista a cui si sta assistendo sul web e di cui spesso si fanno promotrici persone che, data la loro influenza e rilievo sociale, dovrebbero al contrario dare il giusto esempio.
“Come facciamo a contrastare la violenza sulle donne, se gli insulti arrivano proprio dalla politica, anzi dai suoi esponenti più importanti?”
Il Ministro Salvini ha definito, per esempio, sulle proprie pagine social la capitana Carola come una “criminale, pirata e sbruffoncella”. Come può essere interpretato dalla gente tale linguaggio di odio, senza mezze misure, utilizzato e diffuso da interviste e sulle pagine social aperte al grande pubblico? Se ciò è permesso ad una delle più alte cariche di rappresentanza istituzionale, perché non può essere concesso al cittadino comune?
Cos’hanno in comune queste donne, che solleva un tale odio ossessivo e viscerale?
Ciò che le accomuna è il loro ruolo emergente nella società, esse sono donne spesso istruite, libere, di relativo potere o comunque di strategica visibilità. Il primo passo per abbattere i loro sogni di grandezza è attaccarle psicologicamente, tramite la minaccia e sminuendone le capacità, ricordandogli che il loro posto è a casa; sino ad arrivare all’odio vero, quello che augura la morte, la violenza e lo stupro.
Ci indignamo davvero?
Forse non abbastanza. Le donne in Italia in posizioni apicali, dalla politica, alle aziende, allo sport, sono ancora troppo poche e questo spiega il ritardo in quel cambiamento culturale di cui tanto abbiamo bisogno. Il linguaggio comune è pieno di rievocazioni sessiste e rafforza l’ondata di sentimenti sessisti e di odio contro le donne. Il cambiamento culturale passa anche e soprattutto dal linguaggio quotidiano. La vera sfida è però andare controcorrente, trasmettendo alle nuove generazioni valori come la tolleranza; le frustrazioni non vanno gettate addosso alle altre persone, sotto forma di insulti violenti, identificandole come il nemico giornaliero e di turno.