Simone Cattaneo: suicidarsi poetando con stile

Ho suonato al campanello di casa e mi ha aperto una vecchia baldracca

che si pisciava addosso e beveva Fernet, diceva che era tutta colpa mia.

Aveva tempie affossate, lobi delle orecchie tagliati come cubetti di ghiaccio e

un naso consumato, biscotti di cane erano sparsi dappertutto.

Ero mancato per molto tempo questa volta – chissà dove ero stato –

casa dolce casa stai sicura, la morte sistema ogni cosa.

Morto ormai dieci anni fa, Simone Cattaneo (1974-2009) può finalmente liberarsi del marchio di “poeta suicida” ed essere studiato, percepito, conquistato, nel puro principio del suo memorabile stile. Un poeta stiloso, sottile, che parla di violenza, bruttezza, bestemmia e decadenza. E parla proprio nel linguaggio di ciò che osserva: la distanza lirica è minima, c’è piuttosto uno stile che emerge dalla finestra stessa del paradigma reale. Le forme canoniche sono lustrini e smancerie: l’unico stile deriva dalla scoperta delle forme reali del mondo: un mondo che, sorprendentemente, nel suo pattume morale, regala al poeta vitellone – inquilino dell’immondizia – la logica di un senso.

Qualcuno ha definito la sua opera, quella di uno dei più grandi poeti della sua generazione, “la Spoon River di un’umanità degradata”, “tutto il vortice di orrori e miserie che ci circonda”. Spariscono la teoria, l’ipotesi… spariscono perché assorbiti nella morte apparente di un mondo tumultuoso. Perché se la morale, il valore e il disvalore sono fiori e ghirlandine per l’alto bordo, i veri abitanti della terra sono tristi zombiformi, silenziosi e sieropositivi, ritratti e disagiati. Non spargono senza ritegno il proprio timore di essere proprio se stessi: quel poco di amor di sé che fa campare un essere umano, che lo tiene attaccato alla vita, non deve scaturire necessariamente nell’esibizione di amor proprio.

Così è Cattaneo, come i suoi protagonisti: solo che lui ha perduto anche l’amore di sé, anche quel minimo palliativo di una timida esistenza. Da qui il suicidio, da qui il lancio dalla finestra: a partire dal mondo, una caduta volontaria a partire dal mondo reale. È suicida, del resto, solo chi si butta dalla padella del male alla brace del nulla. Non si brucia chi non è già bollente, nella poesia e nella vita (triste e) vera. Non è tanto interessante che Cattaneo sia stato un poeta suicida, quanto il fatto che si sia suicidato in stretta appartenenza con la sua poesia.

Non è per amore né per coraggio

se continuo a sputare denti sul selciato

legato a un muro di vetro screziato

difficile da scalfire con un cucchiaino

da caffè surriscaldato.

Complesso, torbido, ma comunque molto lucido. Sarebbe sbagliato ricercare nel suo simbolismo e nella sua tavolozza gli spunti e gli istinti di qualche grande predecessore, perché innanzitutto crediamo che Cattaneo non fosse un così feroce lettore, e poi perché ci piace pensare – e a buon intendere – che siano le sue stanze a parlare per lui, i suoi personaggi a trovare le frasi, i suoi tempi a regolare i suoi flussi.

Silenzioso, timido, dicevamo: “La prima parola di latino che ho imparato è silentium”. Notare quel “di”, che con la sua ingenua forza espressiva dissimula ogni appartenenza del poeta a ciò che esuli, elevi dal grigiore e dai colori della sua vita comune. Il silenzio, comunque, è il soggetto percipiente e sempre fermo dei suoi scritti autobiografici. Cattaneo parla di molte persone intorno a lui, ma allora e anche quando parla di sé stesso, fa trasparire un senso d’identità che ci racconta per filo e per segno una psicologia reale, un’anima incarnata da testa a piedi. L’analisi funziona senza rumori.

Lampade al sodio guaste sul pavimento della cucina

e intorno al mio corpo macchie d’olio che sembrano vermi

gli occhi lucidi come bigiotteria e

una specie di bitume che sigilla il cielo del Mediterraneo,

mentre parlo sempre con le braccia tese davanti a me

come per spingere via un corpo assente.

Non è difficile immaginarselo piegato, ritratto sulle ginocchia con in mano una Moretti o un Amaro del Capo. Ma è chiaro pure che a questa posa plastica, a questo cliché scenografico si accompagni un autentico e spontaneo scrutare il mondo a portata di mano e quell’anima che, per caso, è caduta dentro al corpo del poeta. Un corpo emaciato, parzialmente sconfitto nell’espressione e nella postura. Simone Cattaneo sorrideva, ma immaginiamo che non ci mettesse molto a tirar fuori il patentino di poeta maledetto. Certo, non proprio quello di poeta mestierante:

Un arazzo barocco pare l’albero

che fiero emerge da questo lago

di cui nemmeno so bene il nome

e mi vergogno di scrivere di fronte

agli uomini che delimitano i confini.

Ma il fatto che egli si sentisse un poeta e che prendesse su di sé tutto il carico esistenziale della sua condizione di marginalità, questo è evidente da molte angolazioni. Cattaneo, nelle sue poesie, come un teatrante, si esibiva, esibiva i suoi atteggiamenti, come in una perenne intervista a se stesso.

Altro che mobilità sociale

Vorrei venire su quel seno di silicone che una ragazzina

Mostra ballando in mezzo al locale, mi pare di avere una

collana di orecchie umane, vorrei fare il kamikaze per mettermi

In evidenza, dimostrare quanto valgo, e già la vedo dileguarsi

Nei bagni a spompinare a più non posso dei suoi bastardi coetanei

Sono troppo vecchio anche per questo. Esco dal locale, compro in un

Supermercato una scatola di tonno e creo una sicura lama affilata.

Aspetto il primo maiale che passa.

È immediato leggerci un uomo, dietro tutte quelle bestemmie, exploit sessisti, affermazioni d’intolleranza e sfoghi razzisti. Ma in realtà non c’interessa nulla o ben poco dell’uomo-Cattaneo, e a lui interessava ancora meno: lui sapeva fare il poeta delle cose che raccontava nel modo più vero, di quegli sfoghi che selezionava tra i numerosi avvenimenti della sua vita per rappresentare solo ciò che si sentiva di rappresentare. È solo un caso che quel poeta, parlando di un mondo al sapore di suicidio, si sia ammazzato: è un caso che deriva da una scelta, da una pienezza d’impressione che si tramuta in azione. Laddove è raro che le poesie raccontino realmente le azioni, con Cattaneo non solo questo accade, ma le poesie si trasformano ulteriormente in altre azioni. Un uomo che andava in un night club non parlava solo della passata esperienza, ma si rivolgeva con la mente alla prossima volta, all’essenza delle cose e della sua persona che vuole che quel ritmo non s’infranga, che il night diventi parte essenziale della persona come del racconto. Una ricerca del valore essenziale della vita e della natura, quella di Cattaneo, proprio come i vecchi poeti-sapienti e i profeti novecenteschi come Pasolini e Borges. Ma Cattaneo riesce a fare tutto questo senza teoreticismo, lasciando a zero l’impressione di star dicendo la verità.

Il suicidio era il prodotto spontaneo della sua opera, ma non la svolta necessaria della sua vita. Cattaneo uomo e Cattaneo poeta: due persone che per puro caso – un caso maledetto, purtroppo – si trovano a legarsi. E questo è avvenuto perché, nel cercare strenuamente di parlare delle essenze, il poeta autentico, quel poeta raro e quasi sconosciuto alla modernità (ce lo insegnava già Rousseau), non si spreca ad avventarsi con la penna sul suo mondo se, a sua volta, da quella penna, non risulti un altro mondo altrettanto autentico, fatto di azioni concrete, reali e iconiche.

C’è velocità in questa stagione, le parole si rubano a chi non ci fa più caso,

di sera in sera, di mattina in mattina,

una maschera africana attaccata alle stelle di ogni città,

con la propria lingua e la propria inerzia

uno stallone castrato senza più fiato.


FONTI

S. Cattaneo, PEACE & LOVE, Il ponte del sale, Rovigo, 2014

L’Intellettuale Dissidente

CREDITS

Immagine 1: del redattore

Copertina

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