Quando ho aperto gli occhi ho pensato che non sarei mai riuscita ad alzarmi dal letto. Avevo passato la notte a girarmi, ad annodarmi nelle lenzuola, avevo sognato un ragno enorme che scendeva dal soffitto atterrando sulla mia spalla. Il dolore al basso ventre era diventato sempre più intenso, quasi ingestibile. Rannicchiata su me stessa, in posizione fetale, con le ginocchia strette contro il petto, avevo lasciato che i crampi mi sconquassassero. Ogni mese è la stessa storia.
Lentamente mi sono tirata su a sedere, mi sono passata una mano sulla fronte e ho lasciato che l’emicrania che fino a quel momento era rimasta tranquilla, placida, nel suo posto dietro agli occhi, mi invadesse la fronte.
In bagno mi sono guardata allo specchio e ho visto un volto pallido, due occhi cerchiati di grigio, la rima arrossata delle palpebre. Automaticamente, senza nemmeno pensarci, per un riflesso incondizionato, mi sono portata un dito alle labbra, ho morsicato la carne intorno all’unghia e ho strappato una pellicina. L’ho sempre fatto, fin da quando ero piccola; strappo uno strato di pelle dopo l’altro, fino ad arrivare alla carne viva, fino a che fa male, fino a sentirla pulsare. Mi scarnifico.
Il sangue ha iniziato a uscire lentamente, formando una piccola bolla rossa, poi un rivolo caldo è sceso lungo la falange. Ho appoggiato entrambe le mani al bordo del lavandino e ho lasciato che il sangue fluisse via dal mio utero, una sensazione strana a cui non mi abituerò mai; qualcosa mi si sfalda dentro e decide di uscire, quando vuole, come vuole, con l’intensità che vuole. Una contrazione dopo l’altra, una fitta dopo l’altra, sanguino. Sanguino dentro e sanguino dalla punta dell’indice destro. Mi sento debole, le mie ginocchia sono morbide, flessibili, pronte a cedere.
Afferro lo spazzolino, respiro, non va meglio, ma l’odore del dentifricio alla menta mi arriva fino in gola e per un attimo il senso di nausea che mi opprime sembra passare. Sfrego i denti con poca convinzione, in bocca la saliva si mischia con una schiuma bianca. Sputo. Sulla ceramica del lavandino scivola un rivolo di sangue rosa mischiato al dentifricio; scivola verso il fondo, attratto dal vortice dell’acqua che ho lasciato scorrere. Mi sanguinano le gengive, ne sento il gusto metallico in bocca. Ancora una volta, l’ennesima volta. Mi sembra di essere nient’altro che carne e sangue.
Il mio sangue non mi fa impressione; da piccola troppo spesso mi è capitato di perdere sangue dal naso, fiotti di sangue che sembravano inarrestabili. Una sera ne avevo perso così tanto che mio padre era stato tentato di portarmi in ospedale. Soffrire di epistassi vuol dire soffiarsi il naso, in maniera innocua, e trovarsi con le mani piene di sangue. Su un bus, in mezzo alla strada, in aula, dover correre in bagno, ricordarsi di non tirare indietro la testa ma di chinarla in avanti, mettere i polsi sotto l’acqua fredda e aspettare che passi. Vuol dire guardarsi sanguinare, perché quasi sempre sui lavandini ci sono degli specchi. Ho passato sere intere, mattine, minuti eterni a guardare il mio viso nello specchio mentre mi stringevo le narici tra l’indice e il pollice, aspettando pazientemente, tremando un pochino ogni volta.
Ormai sono quasi abituata alla sensazione del sangue che esce dal mio corpo: che sia dal naso, dalla bocca, dalle dita, dall’utero. Non facciamo altro che sanguinare, in fondo. In silenzio sanguiniamo dentro, anche quando dall’esterno non si direbbe. Lo sappiamo solo noi.
Mi sciacquo la bocca, mi asciugo le labbra con l’asciugamano. Mi avvolgo il dito scarnificato in un cerotto trasparente che stringo un po’ troppo. Mi cambio l’assorbente. Spengo la luce del bagno, torno nel letto, mi infilo tra le lenzuola bianche immacolate.
Scivolo pesante in un sonno rosso senza sogni.
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