Sapete, la gente pensa che i serpenti portano sfortuna, disse, eppure dev’esserci del buono in loro,
visto che ci sono quei guaritori ambulanti, che li usano da sempre come medicina.
Cormac McCarthy
Ofidiofobia. O anche, paura irrazionale dei serpenti. La parola deriva dal greco, come unione di ophis (serpente) e phobia (paura). Il giornale La Stampa colloca la paura di questi rettili al terzo posto nella classifica delle tredici fobie più diffuse al mondo. La precedono la paura dei discorsi in pubblico (glossofobia) e, al primo posto, la paura dell’altezza (acrofobia). Ci sono tante questioni che possono essere sollevate a riguardo. Perché tale fobia è così diffusa? Qual è la storia iconica di queste creature squamate striscianti, così ripugnanti principalmente per il pubblico femminile? Può infine l’arte esorcizzare la paura attraverso l’immagine?
Un serpente è un ofide. Appartiene alla categoria dei rettili apodi, privi di arti. Striscia tra l’erba alta, si nasconde. Non si vede, non subito, e forse per questo scatena una paura zoofoba tra le più diffuse. Nasce tutto dalla considerazione razionale del serpente come animale potenzialmente pericoloso, iniettato di veleno e pronto ad attaccare l’uomo. Si traduce poi nel pensiero irrazionale del serpente che fa paura in quanto esiste.
Si può ricondurre il tutto a cause primordiali, come il morso di un serpente in età infantile, oppure alla freudiana paura della castrazione o ancora a un indottrinamento cattolico che adduce al serpente una natura tentatrice, demoniaca. Non si tratta solo dell’animale in carne e ossa con un apparato scheletrico dalle 100 alle 500 vertebre, bensì parte tutto dall’idea, dal pensiero o dall’immagine. E da qui si muove l’arte, dalla natura iconica. Che cosa simboleggia, quindi, il serpente?
Dal giorno in cui il serpente tentò Eva, su di lui e su tutte le donne ricadde una maledizione eterna. Prima creatura invitante, ingannevole nella sua malizia, poi essere respingente per il sesso femminile. Ma il serpente non è stato da sempre connotato in maniera malvagia. Agli albori del Cristianesimo veniva collocato sulla croce come quinto elemento, dopo l’acqua, la terra, il fuoco e l’aria. Il suo era il potere trasmutante del fuoco nella connotazione I.N.R.I. Igne Natura Renovatur Integra. Il fuoco rinnova la Natura intera. Il serpente è quindi simbolo di vita, di rinnovamento continuo, infinitamente diffuso ed eterno.
Non c’è un inizio, né una fine. Per questo il simbolo che più ne definisce la natura è l’Uroboro (Ouroboros): il serpente che si mangia la coda conformandosi in un cerchio giottesco. L’eterno ritorno, che connota la creatura come Christi Serpentis. Una nuova nascita che accompagna sempre ciclicamente la morte e si reitera, all’infinito. È la rappresentazione che ne dà l’artista serbo Dragan Jovanović, assurgendo l’animale a creatura mitologica dalle fattezze di drago che si contorce a formare un Nastro di Möbius, un’unica superficie, percorribile infinitamente senza mai capire da quale lato la si sta attraversando. Escher ci ha fatto camminare le sue formiche nell’incisione del 1963. Una camminata senza fine.
Il serpente è quindi simbolo di vita che si autorigenera. Cambia pelle, fa la muta. Una creatura senza età, che resta giovane in eterno. Come il Diavolo, come chi ha fatto un patto con il Diavolo. La giovinezza riacquisita è una conquista. Ed è su questa linea che si inserisce L’Epopea di Gilgamesh, re di Uruk, sopraggiunto dopo il Diluvio Universale. Si racconta che il sovrano volesse conquistare l’eterna giovinezza e, dopo un tentativo fallimentare, si fosse affidato a una pianta magica, la pianta dell’irrequietezza.
Tanto inebriante al profumo da lasciare avvicinare un serpente, che si sarebbe impossessato della pianta, sorbendone l’effetto magico. Il serpente ha così cambiato pelle, mentre Gilgamesh è rimasto a bocca asciutta. Forse, questa storia insegna che gli uomini non possono chiedere più di quanto è stato previsto per loro. Un’esistenza finibile, contro quella imperitura destinata alle divinità. E al serpente, che nella mitologia dell’Antico Egitto appartiene a una di loro. È la dea Wadjet, protettrice dei re e delle donne in gravidanza. Rappresenta la personificazione dell’Occhio di Horus, simbolo di prosperità, di buona salute, di fertilità.
Non è strano quindi che la divinità che veste le squame del serpente sia una donna. Non è strano che il serpente dell’antichità egizia sia un cobra. E non è strano infine che Donatella Rettore canti sulle note di Kobra: “Il cobra non è un serpente, ma un pensiero frequente, che diventa indecente, quando vedo te”. C’è perciò una forte componente sessuale legata all’ofide e soprattutto alla donna, così fortemente intessuta alla storia della creatura sin dalla Genesi. Invece, Sigmud Freud preferisce legare la storia del serpente all’uomo, associandolo a un simbolo fallico, interprete della forza sessuale e della virilità.
C’è quindi forse una sottotrama raccontata dalla storia e dall’arte per cui la donna sarebbe contemporaneamente attratta e impaurita dal serpente? Questo è l’origine di tutto, come simbolo di vita che inizia e non finisce, ma si rigenera continuamente in una ciclicità divina, dove il serpente conserva la sua eterna giovinezza e la sua vena regale e sessuale.
Tutta questa cornice potrebbe ricoprire d’oro un’animale che in realtà non è così spaventoso come sembra. Non tutti i serpenti sono uguali, così come non lo sono tutti gli uomini. È necessario conoscerli e prevenire incontri spiacevoli, ma senza innalzare attorno al rettile un’aura sacrale e intoccabile, frutto di una paura irrazionale. Frutto dell’ofidiofobia.