Quanto siamo effettivamente consapevoli di quello che indossiamo?
L’abito che abbiamo addosso è un pezzo di tessuto., che tagliato e cucito in un certo modo diventa una gonna, una t-shirt, un pantalone. Cambiano le forme, cambiano i tessuti, cambiano le decorazioni. Ma qualcosa a cui non prestiamo mai attenzione è che a cambiare sono anche le mani che hanno fatto sì che quel pezzo di tessuto si trasformasse in un capo d’abbigliamento.
Prima che un abito arrivi nelle nostre mani passa attraverso quelle di una filiera, persone di cui non conosciamo né il nome né il volto.
Dire che indossiamo un abito di Gucci, come dire che ne indossiamo uno di Zara vuol dire tutto e niente. I brand sono solo la punta dell’iceberg.
Il “team” che crea un abito è composto da decine di persone, ognuna specializzata in un ambito diverso.
Ad esempio per cominciare i lavori c’è chi si occupa della creazione della collezione, ma prima di loro c’è chi da anni ricerca le tendenze che hanno maggiore possibilità di attecchire sul mercato.
Poi si passa alla scelta dei tessuti e alla loro realizzazione pratica. C’è chi si occupa della realizzazione sartoriale, chi si occupa della decorazione dell’abito e chi ancora decide se nel complesso il capo è accettabile o se bisogna rifare tutto da capo.
Per noi sono solo abiti, costosi o no, alla moda o no. In realtà dietro c’è un lavoro che in alcuni casi può essere molto lungo e soprattutto c’è una grande circolazione di denaro.
A questo proposito è nata un’iniziativa intitolata “Fashion Revolution” #whomademyclothes?
Questo movimento nasce in Inghilterra nel 2013.
Perché?
È il 24 aprile del 2013 e a Dhaka, Bangladesh, crolla un edificio del complesso produttivo di Rana Plaza. I morti sono 1133.
50 Paesi aderiscono a Fashion Revolution per ricordare le vittime di questo terribile incidente. L’obiettivo del progetto è quello di permettere ai consumatori di acquisire maggiore consapevolezza nell’acquisto dei loro capi d’abbigliamento (e non solo). Attraverso Fashion Revolution si vuole mostrare come alla base della produzione di merce vi siano esseri umani e che tale produzione non è isolata dall’ambiente nel quale viviamo. I materiali, le tecniche produttive, le condizioni di lavoro dei membri del settore: sono tutti elementi che influiscono profondamente sul contesto socio-economico nel quale siamo tutti inseriti.
Tra le iniziative più coinvolgenti di Fashion Revolution, quella di invitare tutti a postare una propria foto indossando abiti a rovescio, taggare il brand in questione e chiedere: “Chi ha fatto i miei vestiti?”. Nonostante l’ampia accoglienza da parte del pubblico, difficilmente i brand potrebbero effettivamente dare una risposta a questa domanda. I numeri sono troppo alti, i collaboratori troppo numerosi e i capi d’abbigliamento infiniti.
Ma l’obiettivo è un altro. Con questa campagna si tenta di inviare un messaggio ai grandi (e non solo) brand sul mercato mondiale. Si vuole lasciare intendere che a noi consumatori importa veramente conoscere chi c’è dietro ciò che stiamo indossando. Inoltre questo potrebbe sensibilizzare anche altri a fare altrettanto.
Purtroppo ancora oggi nel mondo le condizioni di lavoro di molti non sono adeguate. Spesso anche i brand più famosi decidono di dislocare la loro produzione in paesi sottosviluppati perché la manodopera costa effettivamente molto meno. Ma questa differenza di costi dipende fondamentalmente da differenze nelle legislazioni dei paesi in questione. I lavoratori non sono per nulla protetti, possono lavorare all’infinito senza che nessuna legge imponga limiti agli orari lavorativi che per questo sono disumani, anche i bambini molto piccoli lavorano, e a loro si può anche non dare lo stipendio dei “grandi” perché difficilmente si lamenteranno. Le condizioni igieniche sono pessime perché anche in questo settore non esistono delle norme: il proprietario dell’industria non è di conseguenza obbligato ad acquistare macchinari, strumenti per la messa in sicurezza o prodotti dal costo molto elevato ma può limitarsi ad acquistare quelli più economici anche se tossici o pericolosi.
Ma più di tutti a rappresentare un motivo rilevante è la motivazione che spinge queste popolazioni a lavorare sodo: la necessità.
Tutti abbiamo bisogno di lavorare, ma quando il tuo Paese non può sostenerti, non puoi permetterti neanche le cure di base, il costo della vita è troppo alto, le tue possibilità di lavoro sono minime, fai di tutto per sostentare la tua famiglia. Per questo uomini, donne e bambini accettano queste condizioni.
Tuttavia difficilmente chi acquista è consapevole di tutto ciò. Peggio ancora, anche se ne è consapevole fa finta di non saperlo. Si preferisce chiudere gli occhi pur di avere quelle scarpe, quella tuta, quella borsa. Non si può fare altrimenti.
Invece Fashion Revolution mostra come un’alternativa sia possibile. Sensibilizzare, per prima cosa i brand ma soprattutto i consumatori a porsi il problema di considerare cosa e soprattutto chi c’è dietro la filiera, di interrogarsi sul perché e sul come.
Forse non riusciremo così facilmente a cambiare le cose. Sono sistemi complessi, dagli equilibri delicati, basta un passo falso e tutto è crollato. Sono i grandi della politica che devono occuparsene, pensiamo ogni giorno, più per giustificarci che per vera convinzione forse.
Tuttavia possiamo fare un passo verso il cambiamento, possiamo avviare il movimento, possiamo chiedere: Who make my clothes?