Niente di più emblematico, nel presentare Jacques Prèvert, della sua sottile, semplice ed emblematica Chanson:
Che giorno è
È tutti i giorni
Amica mia
È tutta la vita
Amore mio
Noi ci amiamo noi viviamo
Noi viviamo noi ci amiamo
E non sappiamo cosa sia la vita
Cosa sia il giorno
E non sappiamo cosa sia l’amore.
Prévert era un poeta facile, semplice di una semplicità oggi impossibile. Come lo ricorda Nico Orengo: un “poeta tascabile”.
La lingua era la stessa di altri: quella complessa di Mallarmè, quella aristocratica di Valery e Ponge, quella selvaggia di Lautréamont e Rimbaud. Ma il suo registro, i suoi ritmi, per come si spigliavano dalla tradizione, rappresentavano un necessario e inevitabile naufragare del francese nei territori del pop, negli scaffali commerciali di Elvis e nei manifesti popolari del cabaret. Prévert è questo: un facile accesso poetico a un mondo che comincia ad accelerare, globalizzarsi e a vivere delle sue parzialità semantiche. Prévert era un poeta parziale: locale come le trame di Gadda e gli scenari di Hopper, lontano dall’universalismo sapienziale che la sua epoca – dalla filosofia, alla scienza, al costume, alla politica – aveva imparato a non impugnare. In Sartre, Prévert, Picasso… sanno sopravvivere prospettive liriche, estetiche ed esistenziali che rinunciano alla mole del globale: sanno vivere del bagaglio dell’occasione. È dall’occasione, un’occasione amorosa, che da Prévert s’irraggiano gli scenari poetici di una generazione (francese, studentesca, vagabondante, bellica e bellicosa) che, a modo loro, campano di una luce angelica senza Dio, sufficiente senza condizioni di sufficienza.
Prévert parla d’amore, è un assunto. Come Hikmet? No, con più cronaca. Come Cavalcanti? No, con più disillusione. La cronaca disillusa, occasionale e a tratti cinica di un sentimento sempre profondo. Le conseguenze di un sentimento possono essere leggere, alienanti o addirittura vincolanti, ma la condizione strutturante del concetto stesso di amore è sempre la grandezza, la terribile avidità. Non contano il tragitto, le speranze, gli umori… l’amore è la magia di un passo, che si allaccia intorno agli amanti con ironica casualità.
Sulla strada di Denain
Una donna nuda
Che nessuno ebbe mai
Sulla strada di Denain
Un uomo nano
Che nessuna mai volle
Sulla strada di Denain
Quatto quatto
Una notte
Il nano ebbe la nuda.
E non c’era nessuna Fedra, nessun Paolo e nessuna Francesca, nessun Romeo e nessuna Giulietta, nella Parigi degli anni ’50/‘60/’70. Se ci fossero stati, sarebbero stati tutti. Come comporre la poesia di un amore giovane, quando il tuo ambiente lo trasuda? Non idealizzando, non costruendo, ma riproducendo, riportando, selezionando, imparando. “I ragazzi che si baciavano in piedi/Contro le porte della notte” erano il solito spettacolo da bar, la frequente pantomima per le strade. D’altro canto, Prévert non solo prendeva, ma soprattutto insegnava e donava: niente, del giovane cuore parigino, era difficile da capire. Bastava ricordare, riannodare qualche filo con l’aiuto dei canti di quel vecchio amatore. Oggi lo chiameremmo counseling: ieri sarebbe stata filosofia quotidiana, strana offerta gratuita di un maestro lontano dal sacro, dalle biblioteche lucchettate, dai sospiri inaccessibili… Un canto pragmatico, insomma, una breve lezione d’amore, della cosa più comune e più complessa.
Io avevo una lampada a olio
tu la luce
chi ha venduto il lucignolo?
Il “Carceriere” che libera l’amata, “l’Allodola del ricordo”… fauna diffusa e conosciuta, conteggio iconico del mondo, nelle raccolte di Prévert, senza pretese descrittive. Ogni donna, uomo, cosa o animale è un oggetto di scena, qualcosa che è stato appena pensato, così, all’ombra di un’esperienza, all’oscuro dell’intelletto.
Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte
Il primo per vederti tutto il viso
Il secondo per vederti gli occhi
L’ultimo per vedere la tua bocca
E tutto il buio per ricordarmi queste cose
Mentre ti stringo tra le braccia.
La capacità cronachistica di un poeta non è altro che questo: l’impresa di raccogliere in piccoli spazi, in angusti spazi lirici, la compiutezza di un’idea. Vincolato dal bisogno di sonorità, immediatezza e piacevolezza, il poeta cronachista declina il gesto di vita vissuta al modo di uno stivaggio, parcheggiando ciò che resta della prassi di vita in un diario d’esperienze.
Prèvert è in questo senso il giornalista, il reporter francese più appassionato, spigliato e allo stesso tempo cinico, nell’orizzonte di quella Parigi novecentesca che poco spazio lasciava all’immaginazione e molti spettacoli regalava alle prospettive. Un poeta che è in grado di presentare nello spazio straordinariamente limitato di una rima il concetto completo, esaustivo e stereotipo del Vivre sa vie.
[…]
Lasciavo il mio visone al guardaroba
e andavo nel deserto
Vivevamo d’amore e d’acqua fresca
Ci amavamo in povertà
mangiavamo i nostri panni sporchi in famità
[…]
Una semplicità, dicevamo, che sa di tempi passati e tramontati. Una semplicità che, trasferita su una penna del giorno d’oggi, verrebbe equivocata come sterile e posticcia. Prévert vive della sua origine spazio-temporale, del suo ruolo centrale nell’educazione sentimentale di quella generazione. Ciò che Prèvert ha lasciato alla storia, tuttavia, non è semplicemente un ritratto del suo tempo. La processione di cuori sognatori, affranti ed eccitati che viaggia nell’abisso dell’amore con le sue poesie in tasca, per un verso è composta da chi, al tempo, ha consacrato Prévert all’olimpo della storia; d’altra parte, però, anche oggi lo leggiamo, anche oggi possiamo averlo in tasca e sfogliarlo sognanti. Il segreto lirico e filosofico di un autore che ha capito – nel suo tempo, nella sua epoca, nei suoi luoghi – qualcosa di straordinariamente assoluto, infinito.
Prévert ha parlato di amore in modo semplicemente assoluto.
J. Prévert, Poesie d’amore, Ugo Guanda Editore, Milano, 2015