Il tour estivo degli Zen Circus, anticipato dal nuovo singolo Canta che ti passa, è soltanto agli inizi. La navigata band livornese è arrivata alla cronaca nazionalpopolare soltanto di recente, grazie alla sorprendente partecipazione sanremese con L’amore è una dittatura, ma in realtà è in giro da ben due decenni (riassunti nella raccolta Vivi si muore 1999-2019, uscita proprio quest’anno). Siamo solo all’inizio e siamo all’unica data meneghina di questo tour estivo, eppure la sensazione è che venerdì 14 giugno al Circolo Magnolia di Segrate si sia tenuto un concerto fondamentale, centrale nel consolidare il ruolo rilevante ed essenziale che gli Zen possono ormai rivendicare nel panorama rock italiano. Un concerto in cui tutto è parso andare alla perfezione, in cui nulla appariva fuori posto, nemmeno la leggera pioggia estiva che tanto bene sembrava raccontare la sofferenza di brani quali Catene o Non voglio ballare.
L’atmosfera è altamente rilassata: non si corre a prendere posto per accaparrarsi la miglior posizione possibile, sembra bastare l’essere presenti a un simile raduno. Ad aiutare, sicuramente, il contenitore. Il Magnolia è infatti un circolo che sa metterti a tuo agio: accoglie tutti indistintamente, è sensibile alle tematiche sociali e ambientali, è estroso nelle grafiche e disinvolto nella comunicazione.
Difficile etichettare invece il pubblico. Dai giovanissimi con i genitori, ai rocker brizzolati, per passare agli universitari, finendo con le neomamme. Si tratta di una grande famiglia: del resto i concetti espressi nei vent’anni di carriera dagli Zen sono intensi e precisi, obbligano a scegliere, a prendere una posizione sulle più molteplici questioni della vita quotidiana che vengono affrontate. Dunque, se dopo esserti imbattuto in questo gruppo, e in particolare nella poetica di Andrea Appino, decidi di spendere dei soldi per andare a gridare con gioia la tristezza espressa in queste canzoni, significa che hai empatizzato in modo molto simile a chi ti poi ti ritrovi affianco. In fondo, un po’ vi assomigliate, in fondo un po’ vi volete bene.
Sì, gli Zen Circus non sono per tutti, a meno che con “tutti” non si intenda chi è disposto a confrontarsi con drammi familiari, ristrettezze economiche, crisi adolescenziali e sostanze stupefacenti per interi dischi, sempre e comunque senza retorica o mezze frasi, ma sbattendo invece la cruda verità in cuffia all’ascoltatore.
Il tutto comincia intorno alle 22 e numerosi sono i siparietti durante il live, specie con introduzioni alle canzoni più catartiche. L’attitudine guarda all’estero, sia nei vestiti che nella sobrietà dell’allestimento: soltanto semplici giochi di luce ad accompagnare, per il resto spazio alla musica e soprattutto alle parole. La sfrontatezza è all’ordine del giorno. Accade addirittura che durante Uomo Eroe – in cui viene citata via Prè – il frontman porti la provocazione al punto tale da rivolgersi al cielo con un dito medio indirizzato a Fabrizio De André.
La scaletta è stata ben costruita: non manca nessuna delle canzoni simbolo e il risultato è un tanto armonioso quanto energico karaoke di quasi due ore. Questo consentirebbe alle voci sul palco di prendersi qualche pausa, lasciando ai fan l’onere di concludere le frasi e invece l’abnegazione è totale, nessuno si risparmia e il microfono non viene mai abbandonato.
Gli Zen Circus crescono, diventano adulti, allargano e consolidano il loro pubblico ma rimangono degli eterni scapestrati toscanacci, disposti a tutto pur di fare baldoria e aggiungere una battuta tra una canzone e l’altra (specie sull’asse Appino-Ufo). Il grande merito dei quattro (oltre ai già citati Andrea Appino, chitarra e armonica, e Massimiliano “Ufo” Schiavelli al basso, completano la band Karim Qqru alla batteria e Francesco Pellegrini alla chitarra) è riuscire a mantenersi maturi e professionali: vale a dire, suonare con puntualità e maestria, intonare i brani con vitalità ed esperienza, ma senza perdere l’entusiasmo di un tempo. Un’altra grande dote è quella di impregnare i loro testi di messaggi sociali di unione, uguaglianza e sana ribellione: quella ribellione che mette in dubbio i dogmi, spinge a indagare e a vivere intensamente malgrado – citando due dei brani conclusivi della serata – l’anima “non conta”, malgrado vivi, in fin dei conti “si muore”.
Copertina: foto del redattore