Laura Picone, attualmente insegnante in una scuola media del CPIA (Centro Provinciale per la Istruzione degli Adulti) di Monza Brianza, ha svolto diverse esperienze lavorative professionali e personali nell’ambito educativo e scolastico anche all’estero, in numerosi Paesi dell’America latina. Attraverso associazioni di volontariato, spinta dalla sua passione, ha infatti trascorso alcuni periodi in Sudamerica insegnando spagnolo e italiano tanto a bambini quanto ad adulti in alcune scuole della foresta amazzonica e in Colombia. La sua storia e il suo progetto partono dalla consapevolezza di vivere l’insegnamento come una “vocazione”, e dalla scoperta della sua profonda attrazione e sintonia verso il mondo, la cultura e l’umanità dei paesi latino americani.
Laura, raccontaci di come sei arrivata a questa scelta di vita che riguarda l’insegnamento come aspetto centrale del tuo percorso esistenziale e del tuo amore per i paesi del Sudamerica:
Sono nata a Palermo nel 1985, ho frequentato un liceo classico bilingue in italiano-spagnolo e successivamente ho fatto gli studi universitari in lettere e storia, comprensivi di un anno di Erasmus in Spagna. La scelta dello spagnolo derivava dal fatto di essere sempre stata affascinata dai paesi latino-americani, una passione che si è rafforzata, a 19 anni, in seguito all’opportunità di compiere un viaggio in Perù ospitata da degli zii. Durante questo viaggio, oltre a sperimentare la bellezza naturalistica e archeologica, la cultura e le caratteristiche delle persone di questo paese, ho avuto la possibilità di allentare la mia naturale irrequietezza e di sentirmi totalmente in pace con me stessa, come se avessi trovato “la mia casa”. La caratteristica principale che ho ritrovato in quei Paesi è la profonda umanità delle persone, che si esprime all’ennesima potenza attraverso la voglia di conoscenza reciproca: un elemento chiave che ho sempre ritrovato anche nei successivi viaggi e di cui mi sono resa conto di sentire il continuo bisogno di nutrirmi.
Inoltre, pur avendo osteggiato fin dagli inizi della mia carriera scolastica la possibilità di diventare insegnante, col passare del tempo ho cambiato opinione. Attraverso diverse esperienze professionali e personali, ho scoperto di avere una vera e propria vocazione per l’insegnamento. Uno di questi episodi fondamentali, che mi ha donato quella forma di umanità di cui ho bisogno, è stato un periodo di volontariato con i bambini del Borgo Vecchio (un quartiere disagiato di Palermo). Durante questa esperienza di scuola e doposcuola ho scoperto la passione che avevo così tanto rifiutato fin dagli inizi dei miei studi. Da allora, l’idea di insegnare anche come lavoro precario, che alla nostra generazione di Millennials è apparso subito come una realtà inevitabile, ha preso sempre più un indirizzo mirato. Ciò nonostante, non ho mai mancato di acquisire un ventaglio di esperienze e conoscenze diversificate, come per esempio un master come organizzatrice di eventi culturali.
Il mio percorso è stato simile a quello dei tanti ragazzi della nostra generazione di Millennials che si affacciavano nel mondo del lavoro, proprio all’inizio e in piena crisi economica. Una crisi che ci ha messo subito di fronte alla consapevolezza della disoccupazione e del doversi dare da fare in tutti i modi provando varie possibilità di lavoro e di formazione.
Alla fine dei miei studi universitari, mi sono trovata di fronte all’impossibilità di poter entrare nella scuola statale per insegnare. Dopo un lungo periodo di precarietà segnato dall’insoddisfazione legata alla mia staticità nella mia città natale, è venuto a mancare mio padre. A partire da questo tragico evento ho sentito una forza che mi spingeva a provare con maggiore determinazione quello a cui aspiravo; soprattutto alla possibilità di spostarmi da Palermo, dalla famiglia e allontanarmi dall’idea che mi è sempre stata stretta del “doversi accontentare”.
Ho preso quindi la decisione di andare all’estero, in un posto fuori dal tempo e dalla ristretta realtà palermitana: tra gli indios della Foresta Amazzonica. Tramite una associazione, N.H.V. Nuestro Horizonte Verde ho avuto l’opportunità di andare a fare un’esperienza di insegnamento in una piccola scuola all’interno di una tribù di indios dell’Amazzonia, vicino alla città di Iquitos in Perù. Questa esperienza mi ha permesso di entrare in contatto anche con la mia identità e di capire cosa sia importante nella vita.
Insegnare spagnolo a dei bambini piccoli mi ha dato la concreta consapevolezza di come il ruolo dell’insegnate vada oltre lo stereotipo del docente cattedratico da lezione frontale (tipo di insegnamento che ho sempre rifiutato), e ha rafforzato il mio stile educativo umanistico-affettivo. Un’esperienza forte che mi è servita a capire che l’insegnante è comunque un punto di riferimento, non solo dal punto di vista disciplinare, ma soprattutto dal punto di vista umano. La curiosità delle continue domande degli studenti è stato uno degli stimoli ad interagire che più mi ha entusiasmato.
Tuttavia, mi sono resa conto che con i bambini ho più difficoltà rispetto che con ragazzi o adulti. Pur avendo con loro un rapporto empatico di gioco e comprensione reciproca, ho sempre un po’ il timore di incidere troppo in quanto insegnante nella loro malleabilità psichica, rispetto a dei ragazzi o degli adulti (con cui invece mi metto in gioco in un confronto quasi alla pari).
Al mio ritorno a Palermo mi sono iscritta ad un master per insegnare l’italiano agli stranieri con l’obiettivo principale di potermi trasferire all’estero. Al contempo anche spinta da un reale pragmatismo, cercando di conciliare una voglia di evadere con la necessità di avere un lavoro più stabile. Questa mediazione mi ha portato ad allontanarmi da Palermo per fare un tirocinio al CPIA, Centro Provinciale per la Istruzione degli Adulti a Monza; qui ho avuto la fortuna di essere inserita nelle graduatorie di terza fascia per le supplenze docenti. Sono stata infine chiamata in una scuola media con una utenza in maggioranza di stranieri richiedenti asilo, trasferendomi definitivamente in Brianza.
Mi sono ritrovata in questo mondo di persone e giovani scappati dall’Africa per cercare una vita migliore. Paradossalmente in questo contatto io ho ritrovato tanto me stessa, con una forte empatia. Forte è stato il coinvolgimento emotivo con questi ragazzi e ragazze che sono emigrati dal loro paese, anche in modo drammatico, per vivere un futuro diverso.
Pur apprezzando il mio lavoro di insegnante ricco di soddisfazioni personali e di rapporti con persone che oltre la scuola diventano anche amiche, lo scorso anno ho sentito un nuovo senso di inquietudine: era la mia voglia di evadere. Un bisogno che però non rappresenta un senso di fuga da un luogo o da un contesto, ma piuttosto la tensione intima e profonda verso una necessità di ricerca e di mettermi nuovamente in gioco. Si tratta di un bisogno che non riesco ad assopire e che mi ha spinto a ricercare una nuova esperienza nel Sudamerica, con l’obiettivo di iniziare a sondare il terreno per un eventuale trasferimento.
Sicuramente la staticità di una carriera scolastica statale in Italia mi ha spinto a cercare una seconda esperienza all’estero. Infatti l’insegnamento, che prevede tempi biblici per ottenere avanzamenti di carriera, tende a spegnere l’entusiasmo. Tramite la fondazione Fundaciòn Ponte Italiano, legata al consolato italiano, ho trovato un’opportunità in Colombia nella città di Barranquilla (nella zona dei Caraibi) per una collaborazione di insegnamento volontario per tutto il periodo estivo del 2018. Si è trattato di un’altra esperienza di insegnamento della lingua italiana, antitetica rispetto a quella svolta in Italia, rivolto ad adulti e studenti universitari che avevano un progetto di vita e di migrazione dalla Colombia verso l’Italia. È stato interessante questo scambio di prospettiva che mi ha portato a rivalutare il mio paese visto con gli occhi di uno straniero, e ripensare ai miei studenti italiani-stranieri che non mi sentivo di abbandonare.
Tornata in Italia ho ripreso la mia attività nella scuola e ho vissuto questo ultimo anno fondamentalmente solo per il lavoro. Tornava però a galla la nostalgia per lo stile di vita e l’ambiente della Colombia, che mi avevano profondamente entusiasmato. Purtroppo anche il clima politico che viviamo nel nostro paese sulla questione dei migranti, soprattutto a partire dallo scorso anno, è un altro elemento aggiuntivo che mi spinge a rendere più solido il mio desiderio e progetto di trasferirmi definitivamente. Ho quindi deciso ancora una volta di ritornare in Colombia anche nel 2019 per ripetere la stessa esperienza, ma con un obiettivo che non è solo quello di trovare una realizzazione in ambito lavorativo e in modo specifico di insegnare, ma anche di vivere in un luogo dove sia possibile, per me, trovare la serenità e un progetto di vita integrale.
Laura, cosa ti spinge maggiormente nel realizzare il tuo progetto di insegnamento a scegliere la Colombia come tua destinazione a lungo termine?
Uno degli elementi fondamentali, oltre alla volontà di svolgere il ruolo di insegnante come lavoro, è sicuramente la gente molto aperta e disponibile ai rapporti umani. Pur affrontando i miei viaggi sempre da sola, ritrovarmi in questi paesi non mi ha mai dato l’idea di vivere in solitudine. Le persone sono sempre coinvolgenti e vitali anche al di fuori del contesto lavorativo e in ogni situazione occasionale e quotidiana. L’attenzione e l’interesse che le persone hanno verso gli altri, che ho sperimentato in qualsiasi momento del mio viaggio sulla costa colombiana, mi ha sempre accompagnato, non facendomi mai sentire sola, a differenza della realtà che vivo in Italia.
Questo equilibrio di condivisione tra me e gli altri fa quindi sicuramente parte del progetto di emigrare e di realizzarmi come persona, non solo dal punto di vista lavorativo ma della vita nel suo complesso. Penso che il non dovermi accontentare seguendo la mia natura alla ricerca della mia realizzazione personale sia la base per star bene con me stessa. Tale realizzazione potrebbe riguardare anche la ricerca di una relazione, una eventuale famiglia o una casa, in un futuro contesto di stabilità.
Durante i tuoi viaggi, hai incontrato altre persone che avevano il tuo stesso obiettivo e questa voglia di sperimentarsi come te?
Si certo, ne ho conosciuti parecchie in Sudamerica e soprattutto seguo molti Blog Expat di persone che hanno deciso di mollare tutto e andare all’estero. Si tratta di persone quasi tutte della mia età, Millennials, che intorno ai trentanni hanno preso questa decisione di trasferirsi per seguire un compagno/compagna (ma anche come scelta individuale), spesso in risposta al bisogno di superare la monotonia del vivere quotidiano o perché stanchi di lavori precari o del “doversi accontentare”. Sono persone che hanno avuto il coraggio di superare le loro paure di fronte al cambiamento e al rischio che questo tipo di esperienze possono comportare. Da parte mia ritengo, oltre ogni realistica possibilità di fallimento, che valga comunque la pena di provarci e non vivere con il rimorso di non aver fatto qualcosa a cui si aspirava, che a lungo termine ti logora dentro.
Che consiglio o messaggio daresti alle persone che sentono come te questa tensione e voglia di realizzarsi al di fuori del proprio contesto originario che ritengono in qualche modo inadeguato?
Direi a loro di non avere paura e tuttavia di considerare i loro sogni e le loro aspettative, che possono sorgere in qualsiasi fase della vita, con una buona dose di realismo. Di seguirli se si ha la volontà e la forza ma nello stesso tempo mettere in conto anche la possibilità di ritornare sui propri passi senza che questo possa togliere l’energia di vivere l’esperienza con piena consapevolezza.
FONTI:
- Intervista di Costante Mariani
CREDITS:
- Copertina by Lo Sbuffo
- Foto by © Laura Picone