Più che alle persone, sono fedele alla luce di questi luoghi, alla neve quando arriva. Sono un residente a oltranza e mi pare di cercare il mio paese anche quando sto fuori.
(Franco Arminio)
Ne L’Italia profonda, leggero e coinvolgente pamphlet edito da GOG, il poeta e paesista Franco Arminio e il cantore/scrivano Giovanni Lindo Ferretti raccontano – o meglio, processano poeticamente nel ricordo – le vene più intime e più gravi, le strutture più essenziali e persuasive di quella realtà che, a piccole e infinite macchie sparse, tesse l’identità più profonda dell’Italia: i paesi, le realtà montane, fisicamente e culturalmente arroccate. L’uno poeta appenninico meridionale e l’altro cantore appenninico settentrionale, gli autori di questi dialoghi all’ombra delle vette conferiscono ai loro suoli di origine – e permanenza – non solo un’anima sacra, ma anche un ruolo politico, sociale, poetico: la rinascita dell’Italia in un “Nuovo umanesimo delle montagne” (Arminio).
Il paesaggio montano nostrano, osserva Ferretti, è una “dimensione essenziale dell’antropologia” italica, che “mal sopporta la riduzione”: quel “sacrario del genio italico” non è un unicum, ma un luogo multiplo, che lascia la geografia della penisola all’assurdo di questo felice paradosso. Le differenze esistono, eccome! Da nord a sud, da est a ovest, ma anche da qui a lì, da Camerino a Leonessa, da Bisaccia a Montella. L’Appennino è una moltitudine di cippi impermutabili e assorbenti, un fossile di lontana memoria storica che passa dall’Impero Romano al cristianesimo, dalla battaglia di Legnano alla resistenza anti-fascista.
Cento capitali. Una più bella dell’altra (Ferretti)
Più che gli italiani sull’Appennino ci sono i bruzi, i piceni, i dauni, gli irpini, i sanniti. (Arminio)
Le montagne italiane godono della virtù della località. La permanenza in vita delle anime è terrena. Lo slancio spirituale è orizzontale o verticale, pragmatico o dogmatico, senza pretenziose alternative superomistiche ed istrioniche. Insomma: senza le derive spirituali dell’individualismo urbano-borghese. Negli Appennini Dio è Dio e l’umano è umano. Gli abitanti di quest’Italia profonda sono, secondo Arminio, gli spontanei responsabili della propria sorte e degli affetti più concreti. “È un buon passo verso l’Eterno”. Nessuna categoria sociale e nessuna massificazione. L’Appennino potrà, chissà, un giorno, tornare di moda, ma questo non sfiaterà nell’essenziale quel Genius loci, quelle bolle liriche di rurale autenticità che danno luce al nostro spirito italiano. Certo, questo a patto che le politiche europee vogliano e imparino a trattare quell’immane complessità amministrativa, territoriale e demografica che affligge il villaggio contemporaneo.
Franco Arminio, recentemente candidato sindaco della sua Bisaccia, chiede al governo un progetto di consapevole riequilibrio territoriale, che restituisca agli abitanti e alle case di questi luoghi ormai depressi ed obliati una condizione di vivibilità. Quel mondo fresco e conviviale degli Appennini, a causa di corrotte e scellerate politiche di squalifica del territorio, va ad esaurirsi a sciatta meta estiva e disorganizzato suburbio autostradale. Se c’è qualcosa che si deve fare per rivitalizzare quegli umani, animali e case non è urbanizzarli, approssimarli ai centri cittadini e trasformare quelle realtà in succursali della “vita vera”, appendici removibili del progresso cittadino. Le accoglienti pendici che puntellano l’Italia da nord a sud sono luoghi di vita, morte e dignità, territori che, anzi, a differenza della città conservano ancora quell’universale originario (cattolico, partigiano, storico, pre-storico…) dell’entroterra mediterraneo.
L’impegno a visitare, finanziare e ritornare nei paesi. Quelle sacre nicchie di sapienza artigianale, di pensiero pre-industriale e di sentimento post-messianico sono più che resti: sono mete, pluralità d’identificazione di una nazione che, se dileguata nel globale, rischia di snaturarsi in un’idea posticcia di quel che sono le nostre radici. Visitare i paesi è un impegno nazionale, un patriottismo nel senso più alto e moderno del termine. Se i paesi dell’Appennino sono i detentori di culture, storie e forme di vita che definiremmo “autenticamente italiche”, questo è perché la storia stessa dell’Italia si è svolta quasi per intero nello spirito di una diversificata, non collegiale, ma intrinsecamente spezzettata narrazione. Alcuni paesi tuttora esistenti nascono in conseguenza delle migrazioni montane per la discesa di Annibale; altri raccontano di quelle comunità transumanti dell’età tardorepubblicana; altri sono nati in risposta alla de-urbanizzazione del tramonto dell’Impero d’Occidente; altri si sono sviluppati nella logica delle diocesi e dei vescovati alto e basso-medievali; altri hanno assistito e risposto a Barbarossa, Savonarola, Napoleone, i longobardi, gli angioini… Tornare a guardare e studiare i paesi non significa restringere la propria attenzione a una piccola comunità isolata, ma immergersi in un sapere sinaptico, macro-molecolare, che col complesso e interminabile accumulo di esperienze rurali (antropologiche, naturali, monumentali e urbanistiche) permette di ricostruire quel puzzle che è la cultura italiana.
Visitare i paesi, insomma, è un impegno universale, storico, italiano. Ma anche assolutamente contemporaneo: come pretendiamo di includere la nostra società in orizzonti cosmopolitici se non sappiamo cosa dare al mondo? Si rischierebbe, come pensano molti onesti o sediziosi sovranisti, di smarrire le fila di una dialettica bella e senza pari come quella tracciata dalla storia della cultura italiana. Diventare “cittadini del mondo” significa diventare “portatori dell’Italia nel mondo”, prima di abitarlo e durante l’insediamento. Non arroccarsi, perché la cultura, come i paesi, non è semplicemente arroccata su montagne e tradizioni: essa ha un passato, delle peculiarità specifiche, locali, in cui si organizza, e riducendone la complessità si compie un crimine contro la dignità del grande Genio del nostro paese e si fornisce un’idea macchiettistica dell’Italia al sistema-mondo. Il sistema-Italia è in larga parte un aggregato-di-paesi. Un turista che visiti Roma, Firenze e Venezia e si dimentichi di Amatrice, Monteleone e Orvieto non ha conosciuto l’Italia. E lo stesso vale per un Italiano che pensi che la sua cultura sia risolta nella Commedia di Dante, negli yacht di Positano, nei Moet di Cortina e non negli altipiani del Terminillo e nelle chiesette del Tavoliere delle Puglie.
Un paese non deve diventare turistico o agricolo o industriale. Un paese deve diventare sacro dei suoi umori e della sua forma che è soltanto sua. (Arminio)
Il regno dello spettacolo è necessariamente corruzione: si prova a vendere ciò che non si ha. Chi è povero di cultura spettacolarizza, feticizza e commercializza, per pescare in una larga vasca di masse obnubilate con mezzi facili e scontati. Il fasto, la ricchezza e il fuoco sacro dei paesi è la risposta a chi ricerca delle radici, contro l’accumulo di quel fogliame marcio, spettacolarizzato e decadente.
L’Italia sperduta, dominata dallo spirito del tempo ma perennemente ravvivata da uno spirito incantato: questo è lo spettacolo che, secondo Arminio e Ferretti, la nostra penisola ci ha regalato. L’Italia che è erede delle chiesette rurali, dei terremoti e delle feste comunali. La cultura dei muri in roccia viva, che ha resistito all’ingannevole abbandono al cementicio. Augusto si vantava di aver trovato una Roma di mattoni e di averla trasformata in marmo. L’Appennino ha invece il merito di aver trovato una terra in pietra e averla lasciata tale.
F. Arminio e G.L. Ferretti, L’Italia profonda, GOG, Roma, 2019