Tra frasi ispiratrici e docenti guru, i social network stanno lasciando il segno anche sul fronte dell’insegnamento. Cosa rende un insegnante degno di questo nome? Chi è il professore veramente bravo? L’argomento, in realtà, è sotto i riflettori da ben prima dell’avvento del web 2.0: basti pensare al successo di film quali L’Attimo Fuggente. Ma quale sia la buona scuola non è sempre così scontato. Il caso della didattica delle materie letterarie offre in nuce spunti per una riflessione più ampia.
Il rischio della semplificazione
“Continuate a strappare, ragazzi. Questa è una battaglia, una guerra, e le vittime sarebbero i vostri cuori e le vostre anime. […] Armate di accademici avanzano misurando la poesia. No! Non lo permetteremo. […] E ora, miei adorati, imparerete di nuovo a pensare con la vostra testa. Imparerete ad assaporare parole e linguaggio. Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. […] Ho un segreto da confessarvi, avvicinatevi. Avvicinatevi. Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana, e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento, ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita.”
Una scena simbolo del film, quasi un manifesto ideologico. Il professor Keating, interpretato da un memorabile Robin Williams, invita i suoi studenti a strappare l’introduzione del testo di critica letteraria che hanno di fronte. Il suo autore, tale Prichard, proponeva di misurare il valore di una poesia su una sorta di piano cartesiano, con i due assi rappresentati da perfezione formale e importanza del fine poetico.
Aver rapportato l’analisi testuale al calcolo dell’area di una figura geometrica non ha certo giovato al fittizio professor Prichard e alla rigida didattica – al contrario, assai reale – che egli rappresenta. Tuttavia, non è difficile trovare voci fuori dal coro. Qualche anno fa l’insegnante e giornalista Christian Raimo si esprimeva su Internazionale senza mezzi termini:
“È una delle scene più violente e antieducative che io abbia mai visto, e che per anni invece è passata come un inno alla libertà.”
Una libertà che liquida teorie stracciandone le pagine non può che essere eccessiva. E questo eccesso non fa che penalizzare l’analisi testuale stessa in virtù della moda della semplificazione a tutti i costi, del soggettivismo. Così l’ermeneutica della letteratura è passata dal basarsi su un metodo scientifico all’interpretazione personale nuda e cruda. Come se del testo da analizzare si potesse dire qualsiasi cosa il lettore pensi. Come se si potesse perfino scegliere quali testi analizzare e quali no, non solo come farlo.
Il rischio dell’illusione
Ma in che senso metodo scientifico? Quanto può essere rigorosa l’analisi testuale e a cosa deve attenersi? Quesiti simili se li è posti Claudio Giunta, docente di Letteratura italiana presso l’Università di Trento. Chiamato ad elaborare un manuale per le scuole superiori, ha voluto dare al suo un’impostazione nuova, diversa: che non si fossilizzasse su un certo nozionismo, che non portasse i ragazzi a sapere anche le più strane figure retoriche di un testo, senza però saperlo intellegere, cioè capirlo leggendo tra le sue righe.
“Tutto questo non è sbagliato in sé: che male c’è a sapere cos’è un’anadiplosi? Ma diventa sbagliato se mette nella testa degli studenti la convinzione che i romanzi, i saggi, le poesie (soprattutto le poesie!) non siano dei messaggi che qualcuno ci ha spedito anni o secoli fa, messaggi che vanno ascoltati, compresi, giudicati, apprezzati per la loro bellezza o verità, ma degli strani, minacciosi marchingegni di cui importa soprattutto smontare gli ingranaggi per vedere come sono fatti dentro.”
Anche Giunta non ci andrebbe leggero con il professor Keating. Il personaggio del film veniva criticato per i suoi metodi, colpevoli di illudere i ragazzi sul proprio potenziale facendoli appassionare a sogni irrealizzabili. Anche il docente dell’università tridentina, infatti, afferma che “dopo l’adolescenza, seguire le proprie passioni senza avere né vocazione né cultura è una ricetta per il fallimento e per la disperazione”.
Ma ha davvero tanto sbagliato l’amatissimo professore interpretato da Robin Williams? Non proprio: non bisogna dimenticarsi, infatti, che quella passione è un aspetto essenziale della cultura, importante tanto nella sua trasmissione quanto nella sua ricezione. Ne parla così Paola Mastrocola, anche lei insegnante e scrittrice:
“In poche parole è il professore di letteratura che ama la letteratura fino in fondo […]. E di sicuro per contagio la fa amare. Insegnare è contagiare. Passare la passione, trasmetterla come una malattia.”
Come si vede, quello delle Lettere è un caso particolare: le materie umanistiche, infatti, sono per eccellenza quelle che parlano alla persona umana, che cercano di svilupparne la sensibilità. Una didattica che non tenga conto di questo sarebbe fortemente in contrasto con l’essenza stessa della materia. Di qui il problema dell’approccio più o meno rigoroso da adottare in classe e sui manuali. Ma, sorvolando su questi particolari specifici, la presente riflessione può essere estesa all’insegnamento in generale.
Il sempre giusto mezzo
La cultura è ciò che si è coltivato, con amore, del proprio orticello di saperi. Un pezzetto di terra per il quale bisogna comprare semi, a cui non deve mancare l’acqua, da cui vanno tolte le erbacce. Senza cura, senza amore per quel che si fa, cosa potrebbe mai crescere?
La sfida di un bravo insegnante è forse, piuttosto, far sì che questi sforzi non siano fini a se stessi. Far capire ai propri studenti che non si impara senza appassionarsi, ma che la passione, da sola, può accecare e non porta da nessuna parte. Insegnare è pur sempre segnare una strada, e magari rimarcarla quando non è più tanto visibile. In fin dei conti istruzione e ispirazione, disciplina e libertà dovrebbero compenetrarsi e compensarsi, piuttosto che opporsi.
Professor Keating: «Signor Dalton, è stata una bravata da quattro soldi la sua!»
Charlie Dalton: «Sta dalla parte del signor Nolan? E allora il “Carpe Diem”, “Succhiare il midollo della vita” e tutto il resto?»
P. K.: «Succhiare il midollo della vita non significa strozzarsi con l’osso. C’è un tempo per il coraggio e un tempo per la cautela, e il vero uomo sa come distinguerli.»
C. D.: «Ma io la credevo d’accordo…»
P. K.: «No. Farsi espellere dalla scuola non è coraggioso per me, è stupido. Perché perderebbe delle occasioni d’oro.»
C. D.: «Ah sì, e quali?»
P. K.: «Ecco, se non altro la possibilità di seguire le mie lezioni.»
Sembra scontato che il buon professore sia quello che lascia gli studenti liberi di imparare, ma davvero quella mano che li accompagna non deve mai tirare in una direzione? E fino a che punto è giusto che tiri? Quella forza – che per quanto benintenzionata va sempre rapportata a come l’altro la recepisce – è possibile misurarla su una scala di bontà, di opportuno/inopportuno?
Dal canto suo una mano aperta è contemporaneamente libertà di scoperta e offerta di guida in attesa. Quindi diciamolo pure: limite al tempo di quell’apertura non dovrebbe essercene. Questo è poco ma sicuro.