Un’intervista durata due giorni e una notte, una documentazione quasi infinita, cinque anni di scrittura. Così nasce Il risolutore di Pier Paolo Giannubilo, edito da Rizzoli e candidato al Premio Strega 2019, di cui abbiamo già parlato in precedenza. Fulcro del romanzo, che intreccia verità e rielaborazione romanzesca, è la stra-ordinaria vita di Gian Ruggero Manzoni, uomo dai mille volti e dai mille modi, un personaggio la cui complessità è impossibile da costringere nell’esiguo spazio di una singola parola. Ma Il risolutore non è solo questo: è un «romanzo totale», come lo definisce Giannubilo, denso di stratificazioni di senso e di significati, la cui comprensione abbiamo voluto approfondire insieme al suo autore, con il quale abbiamo avuto il piacere di chiacchierare del suo romanzo, di letteratura e molto altro.
Ne Il risolutore affermi che hai scelto di scrivere di Gian Ruggero Manzoni perché è un personaggio che si presta alla trattazione romanzesca. In un secondo momento poi ti sei accorto della profonda somiglianza che vi legava. Allo stesso tempo, però, c’è sempre una terza parte implicata nella scrittura: il lettore ideale, che poi diventa quello vero e proprio, fisico. Dunque perché hai scelto di parlare di Manzoni, in riferimento al tuo pubblico?
Può sembrare un po’ strano, ma davvero quando ho scritto questo libro non mi sono posto molto il problema del lettore. Sono considerazioni emerse poi, quando si è trattato di fare il lavoro di editing, perché avevo scritto un manoscritto abnorme. Ci sono tantissime parti tagliate, che consideravo importanti per dare un’immagine il più possibile completa di Manzoni, ma anche della mia storia. Quando poi ci siamo trovati davanti questo ”mostro”, abbiamo dovuto pensare anche al pubblico, poiché si trattava di una mole che spesso e volentieri scoraggia. Sono pochissimi gli autori che si sono potuti permettere di creare un romanzo fluviale, capace di mantenere l’attenzione e di non spaventare.
All’inizio, quando mi sono messo a scrivere, pensavo soltanto a qualcosa che funzionasse, che avesse una sua coerenza e logica interna. Il mio problema principale era quello di riuscire ad armonizzare delle storie diverse, cioè a fare sì che questa sorta di romanzo totale riuscisse a tenere insieme tutte queste sfaccettature.
Che cosa può dare quindi Manzoni ai lettori di oggi?
Credo che l’aspetto più interessante per un lettore, come poi lo era stato per me da intervistatore, sia l’idea di una figura che nel nostro panorama, a differenza di altri, avesse delle caratteristiche di grande diversità rispetto ai personaggi di cui solitamente si racconta. Se ci fate caso, il romanzo italiano, soprattutto odierno, è molto centrato su personaggi che hanno a che fare con il quotidiano: la classica storia biografica, se si escludono i romanzi di genere, è costruita sul tentativo di fare identificare il lettore con il personaggio. Il risolutore, invece, propone qualcosa di inedito.
Quindi ho presentato un personaggio nei confronti del quale è naturale che all’inizio si provi una sorta di repulsione, di antipatia viscerale; però poi, piano piano, l’operazione che ho tentato di fare – che ha riguardato soprattutto me, ma ho pensato potesse interessare anche i lettori – era quella di andare oltre, cioè scavare, andare al nocciolo di umanità di questa persona e comprendere magari le ragioni che avevano fatto di lui quello che era. Credo che ci sia una forte diffidenza verso ciò che richiama personaggi maledetti; io non volevo costruire un’aura di maledettismo intorno a Manzoni, perché in effetti ce l’aveva da sé. Mi piaceva molto questa sfida, vedere quanto qualcosa di così ”inattuale”, se vogliamo, potesse rompere anche gli schemi.
Uno dei passi più coinvolgenti del romanzo è senza dubbio quello sul salvataggio di Stoja Novak da parte del protagonista. Questo episodio assume una valenza importantissima per Manzoni a posteriori, quasi redentiva. Tuttavia la fine del romanzo, senza troppo rivelare, lascia intendere che l’inferno dei sensi di colpa di Manzoni non finirà mai. È davvero così? Non è possibile il perdono, sia nei confronti degli altri che di se stessi?
Nell’ultima parte del libro le cose sono lasciate ambigue volutamente. Ho pensato molto a quale potesse essere la soluzione migliore per la chiusa. C’è un aspetto, però, che forse non è stato messo sufficientemente in risalto fin’ora, ed è la componente cattolica di questo romanzo. Io penso che nulla – nemmeno le peggiori efferatezze compiute da personaggi anche mille volte peggiori di quanto sia stato Manzoni –, nulla sia definitivo.
Infatti, la cosa che mi ha molto motivato a scrivere è che avevo di fronte una persona che non era particolarmente orgogliosa di quello che aveva fatto; Manzoni cercava una strada per una redenzione. Per quanto la redenzione totale non sia possibile, essenzialmente nei confronti di se stessi, perché ognuno combatte con i propri demoni, sono assolutamente favorevole a valorizzare un percorso che porti a immaginare una seconda possibilità, a pensare che sia possibile scrostarsi di dosso parte del peso. Durante la nostra lunga intervista, Manzoni ha provato a liberarsi per la prima volta in maniera integrale di questo masso che si portava dentro da sempre. L’idea del riscatto, della seconda possibilità, è centrale in questo libro, e in generale nella mia visione del mondo. Tutti abbiamo fatto cose di cui ci vergognamo, ma ciò non vuol dire che saremo per sempre inchiodati a quegli errori.
Nel libro, la letteratura svolge un ruolo fondamentale: non solo è parte integrante della vita di Manzoni, ma è per lo stesso narratore ancora di salvezza, elaborazione, comprensione. Dunque quale valore può avere la letteratura, sia a livello personale che a livello politico?
Il nodo della questione è che la letteratura in quanto forma d’arte veicola dei messaggi in maniera molto più convincente di quanto possa fare un saggio storico. C’è anche della storia nel mio romanzo, ma la confezione, l’abito in cui viene raccontata, riesce ad arrivare al cuore e colpire l’emotività del lettore molto più di quanto riesca a fare qualsiasi altra forma. Il pregio della letteratura sta in questo, nella possibilità di un coinvolgimento molto maggiore rispetto a qualunque altro tipo di documento.
Il tuo è il testamento di una generazione, di cui Manzoni è il simbolo più rappresentativo. Scrivi, citando Tondelli: «Una generazione […] che non era stata in grado di credere veramente in nulla, se non alla propria dannazione». Credi che questa dannazione ossessioni anche le generazioni successive a quelle di Manzoni? Ne siamo ancora affetti o qualcosa è cambiato?
È cambiato tutto. Io faccio l’insegnante, e quello che registro è un cambiamento costante del modo di rapportarsi dei giovani rispetto alla realtà. C’è uno stravolgimento totale dell’etica pubblica e politica, e soprattutto del peso specifico che il senso politico e il senso della comunità ha oggi nelle nuove generazioni. È come se nell’arco di quarant’anni fosse passata un’intera era geologica. La contemporaneità non ha impresso delle accelerazioni spaventose soltanto per quanto riguarda il cambiamento climatico, l’economia, ma soprattutto ha ridefinito completamente i termini sociologici del nostro stare al mondo.
Abbiamo cominciato a essere, parallelamente, molto più attratti a una dimensione privatistica dell’esistenza. Piano piano, le tracce sedimentate ed ereditate dagli anni Settanta sono diventate più labili. Anche i miei coetanei hanno vissuto un percorso che li ha completamente sfiduciati da ogni possibile ipotesi di cambiare le cose. Come ho scritto, quella degli anni Settanta è stata l’ultimissima generazione che ha provato a cambiare il mondo. Dopo di che non ce n’è stata un’altra. Io ho vissuto ”gli anni della pantera”: una sorta di piccolo rigurgito politico, con occupazioni e manifestazioni. Però, erano diventate più delle mascherate che altro; prevaleva l’aspetto ludico, non l’approfondimento e il reale tentativo di cambiare qualcosa.
Ci sono degli scrittori che ti hanno ispirato particolarmente o che hai preso come modello per la tua formazione letteraria?
Senza ombra di dubbio, Philip Roth. Ho letto praticamente tutto, penso di avere più di venti libri a casa. A un certo punto mi sono dovuto fermare perché era sopraggiunto un senso di saturazione. I miei autori di culto sono diventati progressivamente altri, come Martin Amis o James Lasdun, ma soprattutto i francesi, Michel Houellebecq ed Emmanuel Carrère. Tutti vogliono arrivare a Carrère e stabilire un rapporto di filiazione tra Il risolutore e Limonov. Sicuramente c’è, ma in realtà tutta la mia biblioteca è entrata dentro Il risolutore, proprio perché si tratta di un romanzo con diverse sfaccettature di genere.
C’è un libro che ti ha particolarmente colpito e che consiglieresti al nostro pubblico?
Uno dei libri che sicuramente mi ha creato un impatto dirompente e che secondo me veramente chiude il Novecento, anche se è uscito un po’ più tardi, è Le benevole di Jonathan Littell: un librone sterminato, che racconta gli anni che portano la Germania nazista a perdere il conflitto mondiale. La prospettiva, però, è quella di un nazista. La magia della letteratura sta nel fatto che dopo appena cento pagine sei talmente dentro il racconto ed empatico con il protagonista che ti dimentichi che stai leggendo la storia di un mostro, del cattivo. Cominci quasi a parteggiare per lui. Dopodiché ti svegli, ti riscuoti e dici: ”Ma che diavolo sta succedendo?”. Sei diventato talmente parte integrante di quello che stai leggendo che hai perso anche i parametri etici a cui sei sempre rimasto attaccato. C’è un legame molto forte anche con la tragedia greca, una sorta di ricapitolazione di tutti i suoi filoni. Secondo me, tutto nasce lì, nella tragedia greca; ritornando a Manzoni, lui mi sembrava anche un personaggio molto inerente: passionale, violento con gli altri e con se stesso, caratterizzato da sfaccettature che non sempre si saldano bene tra di loro.
FONTI
Intervista con Pier Paolo Giannubilo