Denis Diderot nasce a Langres nel 5 ottobre del 1713. Filosofo, enciclopedista, scrittore e critico d’arte francese; noto per essere stato uno dei più grandi rappresentanti dell’Illuminismo, promotore ed editore di un importantissimo scritto del periodo: l’Encyclopédie. Ma sarebbe riduttivo legare la sua immensa personalità ad una sola opera. Diderot è infatti autore di innumerevoli scritti, tra cui Il nipote di Rameau, o detto anche La satira seconda: opera sottoforma di dialogo satirico, nella quale vengono discusse questioni di etica ed estetica, che ha incantato filosofi, scrittori e lettori.
La prima stesura risale al 1761-1762, ma l’autore continuò a lavorarci fino al 1773. L’opera rimase però inedita fino al raggiungimento della corte di Caterina di Russia, dalla quale corte poi arriverà clandestinamente in Germania e sarà pubblicata per la prima volta in edizione tedesca nel 1805, per mezzo di una traduzione curata da Goethe, che impone il titolo con il quale l’opera è nota ancora oggi (in tedesco Rameaus Neffe), a scapito del titolo immaginato da Diderot, La Satire seconde.
Ma che cosa è Il nipote di Rameau?
Non è propriamente un romanzo, non è un racconto, né un trattato filosofico; per Diderot è una satira, nel pieno senso latino. È costruito attorno al dialogo tra due personaggi, designati con i pronomi lui e io. Il primo pronome indica proprio Jean-François Rameau, nipote del celebre musicista Jean-Philippe Rameau; mentre il secondo pronome indica Diderot stesso. È la scoperta di una personalità bizzarra, geniale, “la duplice coscienza di un intellettuale e di un parassita” nella Parigi in fermento dell’epoca.
Tra le 17 e le 17,30 nel Cafè de la Regence, all’interno dei giardini del Palais Royal, i due si confrontano in un dialogo serratissimo sulla morale, sull’esercizio delle virtù, sul piacere. Rameau racconta al filosofo alcuni episodi della propria vita; gli confessa senza pudore la sua immoralità: è un musicista fallito, un adulatore, sopravvive facendo il buffone di corte nei salotti della borghesia parigina. I due sono quindi sicuramente opposti nell’etica ma quando è invece l’estetica ad essere protagonista dei loro discorsi Diderot si rispecchia in Rameau, chiedendosi come sia possibile che una stessa persona sia dotata di grandissima e profonda sensibilità estetica ma del tutto sprovvista d’altra parte di sentimento morale.
Ma perché il testo è considerato così eccezionale?
Cosa ha portato Hegel a dedicare all’opera un’intera sezione de La fenomenologia dello spirito?
Esso rappresenta l’archetipo della cultura moderna, ruotando intorno ad uno dei temi più importanti del tempo: la natura del sé moderno.
Tutto si basa su due importanti domande: Quid est? (Che cosa è Rameau?) e Quis est? (Chi è Rameau?). Queste due domande rappresentano infatti i tratti fondamentali della doppia natura del sé: quello residuale, che si lascia definire senza resistenza dalla normativa di ruoli, istituzioni e tradizioni e quello non residuale, un sé che assorbe e si lascia plasmare, ma che non è riconducibile alle oggettivazioni esterne. I due sé rappresentano proprio il confronto tra vita etica e vita estetica. Si tratta della rottura della natura unitaria dell’Io, di cui Hegel parlerà a lungo nei suoi scritti. Egli intuirà il carattere paradossale e ambiguo del Nipote di Rameau, individuando nella sua attitudine a sovvertire totalmente i valori linguistici e morali, la possibilità di cogliere l’essenza del vero.
Rameau è consapevole del suo status sociale; è un uomo costretto a rinunciare alla propria dignità per poter sopravvivere. A dimostrarlo è la causa del suo dispiacere: egli infatti durante il banchetto del suo benefattore si è lasciato sfuggire una battuta volgare che ha suscitato lo sdegno dei presenti, che lo hanno cacciato. Il vero motivo però non è la volgarità, piuttosto la risposta data a chi lo accusa di essere un pezzente:
“Sarei qui se non lo fossi?”
Ma è proprio dicendo la verità che il protagonista si emancipa dalla sua natura straniata. I due pronomi diventano simboli proprio della coscienza onesta e di quella disgregata; mentre la prima si erige a modello di sincerità e di coerenza, rappresentando il piacere di sentirsi parte di una comunità e di essere riconosciuti come tali, per la seconda nulla è come appare. Non stupisce perciò l’incapacità di Rameau di sentirsi parte di una comunità. Una decostruzione dello statuto ontologico dell’essere e della sua unità, che trova integrità solo nell’eterogeneità.
“Un insieme di grandezza d’animo e bassezza, di buon senso e insensatezza, le nozioni di onestà e disonestà devono essere stranamente ingarbugliate nella sua testa; infatti mostra senza ostentazione le buone qualità che la natura gli ha concesso, e senza pudore ostenta quelle cattive”.
Rappresenta la cattiva coscienza della società parigina di metà Settecento; Rameau è colui che ha il coraggio di dire in modo spudorato ciò che tutti solamente pensano, e di fare per mestiere, come satirico e pantomimo, ciò che tutti in realtà fanno senza accorgersene nella loro vita: gli adulatori. È una creatura tipica della modernità, ambiziosa ma dagli scarsi successi. Ha molte delle caratteristiche che il filosofo e sociologo tedesco Georg Simmel attribuirà all’abitante della moderna metropoli: “non si lascia incantare da nulla, ha rispetto solo per ciò che gli appare genuinamente nuovo e originale, tiene a distanza gli altri, finge di farsi coinvolgere in una socialità estesa ma che rimane di superficie.” È anche questo il motivo che spinge l’autore a definire il protagonista semplicemente come “il nipote del grande musicista Rameau”.
Ma la verità è che Rameau è un genio, e pur essendo tale si lascia trascinare dagli eventi, dalla società. Il genio, il vero genio non trova quindi spazio nella comunità. Ѐ un disinteresse nei confronti di quel concetto di genio il cui unico scopo consiste nel fare arte e non del bene; un concetto perfettamente espresso proprio nelle prime battute del dialogo, perché critiche anche verso il grande musicista Rameau. Rousseau risolverà la questione introducendo il concetto di altruismo: il vero genio non è perciò colui che si dedica esclusivamente all’arte. Non è l’arte che corrompe gli uomini, non è il progresso, ma il desiderio di farsi notare, di distinguersi. L’unica vera genialità risiede quindi in chi non si preoccupa del successo, ma crea solo per il piacere di produrre bellezze. Un fine questo che la stessa società non comprende e tende a isolare.
Un’opera ricca di elementi quindi, da considerare ancora oggi attualissima e di forte peso sociale.