L’uomo, fin dagli albori, ha sempre tentato di giustificare l’inferiorità degli altri tramite miti o false teorie scientifiche, accusando come primo motivo il colore della pelle (si pensi alla teoria di Linneo del 1735) o la religione (Chamberlain). Molti di questi tentativi si sono poi basati sull’opera di C. Darwin, di cui si sono dimostrati essere una mera estremizzazione. L’uomo, bianco, ariano, virile: l’unico giustificato a governare il mondo. Tentativi di affermazione della propria superiorità che sanno di vecchio, ideologie di un qualche dittatore, lette e rilette tra le pagine di un libro di storia. Il cittadino del mondo ha così ripreso una nuova direzione, ha voluto superare questa idea malsana di superiorità e convincersi che tutti siamo uguali. A dimostrarlo sono stati gli impegni assunti a livello internazionale da parte dei governi, quali la firma della International Convention on the Elimination of All Forms of Racial Discrimination (ICERD) del 1969. È uno tra i primi tentativi di tutela dei cosiddetti “diritti umani di terza generazione”, promuovendo l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, vietando ogni tipo di incitamento all’odio. Convenzione che ha visto il coinvolgimento di ben 177 paesi. Il trattato prevede, inoltre, la formazione di un comitato, il cui compito è quello di monitorare gli sviluppi a livello internazionale in relazione alla lotta contro l’odio razziale: Committee on the Elimination of Racial Discrimination – CERD.
A questo, sono seguite numerose opere tra cui la firma della Dichiaraziona del Millennio che fissa tra i suoi obiettivi il:
“respect for the equal rights of all without distinction as to race, sex, language or religion and international cooperation in solving international problems of an economic, social, cultural or humanitarian character.”.
Tuttavia, gli impegni assunti non sono stati sufficienti. A poche settimane dalla giornata mondiale contro il razzismo (giornata introdotta in memoria dei fatti di Sharpeville, in Sudafrica, che portarono alla morte di ben sessantanove uomini di colore.), si continua ancora a parlare di “odio”.
Cinque anni fa, nel lontano 2014, Obama diceva:
“So che in passato ci sono già state commissioni, task force, discussioni, dibattiti, e non è successo niente. Ma stavolta sarà differente – ha detto Obama – e lo sarà perché c’è un presidente degli Stati Uniti profondamente impegnato nel far sì che stavolta sia davvero diverso.”.
Ma due anni non sono sufficienti per cambiare una mentalità, per cambiare realmente fino in fondo le cose. In America ora regna un forte populismo, che ha infuocato gli animi e ha condotto alla vittoria l’ormai presidente D. Trump. Stessa nazione dove la “Southern Poverty Law Center” ha contato uno spaventoso aumento dei gruppi di odio razziale. Dai 954 gruppi del 2017 infatti si è arrivati a contare un totale di 1020 organizzazioni. Formazioni, però, che non si fermano al solo odio verso gli uomini di colore, dato che le stesse minoranze che per anni sono state escluse dalla società hanno fatto esplodere il loro dissenso. Mi riferisco ai “Black Nationalist”, un movimento che conta ben 264 organizzazioni per tutti gli USA, i quali fondano le loro azioni su atti discriminatori contro bianchi, ebrei e contro la comunità LGBT, giustificando il proprio odio come una rivalsa contro gli anni della colonizzazione.
In Europa e, come abbiamo già visto, in America, nasce un movimento contro i bianchi. Movimento che la stessa storica Barbara Lefebvre definisce “un breviario di odio che permea una parte significativa della cosiddetta gioventù ‘razzializzata’”. E’ un fenomeno che ha le sue prime massime espressioni nei primi anni del 2000: ad esternarlo è stata un’importante dimostrazione giovanile nelle piazze francesi, basata su violenze contro i bianchi. È un razzismo antirazzismo, lo definiscono i più, una nuova forma ingiustificata di odio razziale basata sul pensare di essere giustificati a punire chi per lungo tempo ha fatto dei territori extra-europei il magazzino degli schiavi.
Ma la storia ci insegna che non è stato solo l’Occidente a schiavizzare i popoli africani, bensì anche alcuni paesi musulmani, quali l’Arabia Saudita, terra, oltretutto, dove si esercita una forma di discriminazione razziale molto forte: si pensi al semplice fatto che non siano assolutamente graditi i cosiddetti matrimoni misti. Per non parlare dell’Egitto, in cui si esercita una forte discriminazione verso gli ebrei, odio che vede le proprie cause nei fatti bellici che interessarono Egitto e Israele.
Gli stessi dati della World Values Survey ci illustrano le reali condizioni: la Giordania è tra i paesi più razzisti, circa il 40% della popolazione è disgustata dall’idea di convivere con chi appartenga a una diversa razza; mentre è la Francia a vincere la medaglia in Europa, con un infelice 20%.
Nell’era dei millenials, l’odio razziale assume nuove forme. Perché questa è l’epoca in cui tutti sanno cosa voglia dire “ghettizzare”, “reprimere” e “schiavizzare”, eppure non mancano atti di discriminazione. Lo dimostra lo stesso “Barometro dell’Odio”, studio condotto da Amnesty International, conclusosi nel marzo del 2018 (un anno fa), sui discorsi d’odio in campagna elettorale. Le sue conclusioni sono state che ben il 91% delle dichiarazioni hanno avuto come bersaglio gli immigrati; l’11 % sono stati di discriminazione religiosa e il 7% hanno incitato indirettamente alla violenza. È un tipo di razzismo, quello odierno, che sfrutta le parole. La discriminazione attuale infatti non agisce più per mezzo di azioni corporali (che non sono numerose quanto in passato), bensì incitando i molti al risentimento. E come afferma lo stesso Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia:
“Alcune forze politiche si sono servite di stereotipi e incitazioni all’odio per fare propri diffusi sentimenti populisti, identitari e xenofobi, promuovendo la diffusione di un linguaggio incendiario, divisivo, che discrimina anziché promuovere l’eguaglianza, che pensa che minoranze e gruppi vulnerabili siano una minaccia e che i diritti non spettino a tutti”.
È il secolo in cui siamo cresciuti con le canzoni di donne e uomini di colore, con le frasi di Martin Luther King e di Primo Levi. Ma inconsapevolmente abbiamo lasciato tutto a parole, scadendo nella volgarità della discriminazione. L’Italia è tra i primi paesi a vedere un aumento dell’odio razziale, aumento a cui è seguita, però, una presa di posizione da parte di numerosi cittadini. Si può pensare ai fatti che hanno interessato il capoluogo lombardo, dove più di duecentomila persone si sono riunite a protestare contro una società sempre meno accogliente. Il problema che coinvolge ormai tutti è il fatto che il razzismo stia divenendo una normalità. Sostenuto da un eccessivo politcally correct e allo stesso tempo da un incontrollato linguaggio dai toni neofascisti. Il dilagante terrore di perdere ciò che è proprio o di dover condividere qualcosa con l’altro è sempre più forte, ce lo dimostrano il lungo dibattito sullo ius soli e la paura di mantenere aperti i porti.
In Italia c’è chi, come Beppe Grillo, ha voluto definire il razzismo nel paese come “mediatico”, una finta che ha gonfiato la personalità di Matteo Salvini e gli ha offerto notorietà. Ma c’è davvero da chiedersi che forma abbia questo razzismo nel secolo dell’informazione. Di atti di violenza ce ne sono stati, ce lo ricorda la Osce, che tuttavia dichiara pur sempre un numero inferiore rispetto ai paesi quali la Francia. L’Italia, non è infatti definibile razzista, ma incapace di accettare l’altro per il semplice fatto che manchi un’amministrazione efficiente, capace di trovare una soluzione a chi, più povero dei cittadini, sembra disturbare la quiete. La cosa migliore sarebbe quindi una vera integrazione, tanto nel campo del lavoro come all’interno delle scuole, riuscendo finalmente a contrastare atti come quelli avvenuti nel famoso 9 febbraio all’interno della scuola di Foligno.