Illustrare.
Una parola ambigua, e non perché ci siano ambiguità terminologiche in sé; non è ambiguo il lemma o il verbo in quanto tale, bensì sono ambigue le reazioni che si vengono a creare. Illustrare, non considerando per questa volta il fascino delle miniature bibliche medievali, è spesso considerata un’espressione esclusivamente di second’ordine artistico, di un laterale spessore estetico, la fonte principale di un mero decorativismo post-modernista.
Al contrario ci sono quelli che ne venerano abbondantemente ogni funzione e valore raffigurativo, non solo i designer, ma quasi sempre i più nostalgici contemplatori delle grandi provocazioni della Pop Art, talvolta abusata e banalotta, gli amanti annoiati di Warhol e Lichtenstein, i nomi-colonna che obnubilano spesso – e ingiustamente – artisti di ben altro spessore come Peter Blake, James Rosenquist, Rosalyn Drexler, Evelyne Axell e altri ancora.
Quindi, domandiamocelo pure, a che cosa serve ancorare l’arte al lavoro del grafico, se non per aggiungere una tecnica in più al panorama di quelle numerose tecniche già adoperate?
In realtà la prima palese, ma non sciocca, distinzione da fare è questa: non tutti gli artisti illustrano e la maggior parte di chi opera nel mondo della grafica non è un artista, perché pratica altro!
Si illustrano riviste e libri per bambini che abbiano bisogno di meno parole e di più memorie da parte dei lettori, si illustrano quei prodotti in commercio che necessitano di una maggiore visibilità, si illustrano manifesti e slogan politici (che forse sono veramente gli unici scarti nell’arte) e ovviamente si illustrano le pellicole d’autore, i film memorabili o quelli pedanti, quelli che addirittura possono passare alla storia anche e solo per la propria celeberrima locandina.
Eppure, se oggi conserviamo quel poco di stima che ci rimane nei confronti delle illustrazioni, e se consideriamo arte l’arte di illustrare, appunto, sarà sicuramente anche dovuto a un nome che purtroppo è ben poco ricordato, e non solo da parte delle generazioni dei millennials, ma anche da quelle che le precedono: ovvero Saul Bass.
Questo “anti-coccodrillo” serve a scrivere e raccontare brevemente la sua vita, proprio a ridosso tra la data della sua scomparsa, avvenuta a Los Angeles il 25 aprile del 1996, e l’anniversario della sua nascita, avvenuta a New York l’8 maggio 1920.
Saul Bass trascorse l’infanzia nel Bronx, non avendo la men che minima intenzione di portare avanti il lavoro del padre, un pellicciaio emigrato che viveva di poca rendita.
A diciott’anni Saul vinse la borsa di studio all’Art Students College di Manhattan e nel 1942 iniziò a lavorare in qualità di pubblicitario. Dopo essere diventato l’assistente artistico della Warner Bros, la sua vita fu una continua ascesa.
Saul Bass fece di New York quella che è oggi e quella che era anche ieri; visse nella Grande Mela con gli occhi del bambino che non dava peso ai Roaring Twenties, alla grande depressione del ’29, si meravigliò delle bellezze architettoniche degli skyscrapers, l’evoluzione socio-politica degli anni ’50, ’60 e ’70, fino a vincere il premio Oscar per il miglior cortometraggio documentario nel 1969.
Tra i suoi altri lavori più ricordati, stando alla base del motto che riassumeva il suo modus operandi, cioè “simboleggiare e riassumere”, va ricordata di certo la sequenza d’apertura di un altro film di Preminger: Anatomia di un Omicidio (1959). Bass si fece sin da subito notare per la sua riuscitissima abilità nel riassumere graficamente i passi salienti delle pellicole che gli venivano commissionate.
Con registi più di spicco dell’Academy, tra i quali Hitchcock, Kubrick, Landis, Scorsese e Spielberg, seguirono le sue collaborazioni per la realizzazione di sequenze d’apertura, di titoli di testa/coda o di locandine celeberrime: ricordiamo Vertigo (1958), Intrigo internazionale (1959), Psyco (1960), Spartacus (1960), Shining (1980), The Blues Brothers (1980). Quei bravi ragazzi (1990) o Schindler’s List (1993).
Non è tuttavia da poco far riflettere sull’imponenza pseudo-artistica di Bass, un fare arte che a tutti gli effetti era stato remunerato solo dal “copia e incolla” da studio tipico del pubblicitario che si improvvisava esteta. In realtà Bass voleva solo lavorare di emozione e contemporaneamente di semiotica.
Non è per modestia che costui considerasse il suo lavoro una professione ben poco ripagante e che giustamente la tenesse lontana dall’etichetta purista d’arte:
Non c’è niente di affascinante in ciò che faccio. Sono un uomo che lavora. Forse sono più fortunato di molti altri in quanto ricevo notevole soddisfazione nel fare un lavoro utile.
Dal momento che la ferocia dei mostri sacri dell’arte contemporanea novecentesca era però stata ben addomesticata, e questo grazie a quelle correnti che avevano orgogliosamente gridato allo scandalo, il conformismo americano dei graphic designers scelse di vendersi attraverso due principali produttori di domanda (e non semplici consumatori): se per Warhol la principale fonte di guadagno rimaneva quella società di massa borghese, annoiata dalle avanguardie primonovecentesche, che aveva bisogno di possedere l’iconicità di se stessa, Saul Bass partorì invero un nuovo modo di decorare la realtà, attraverso i simboli che rappresentano l’universale nel senso più cosmopolita possibile.
Questa fotocopia dal reale al post-reale è diventata così inscindibile dal nostro modo di ragionare e di vivere, che saremmo perduti senza i loghi delle app dei nostri cellulari, o anche solamente più distratti di quello che già siamo di fronte a una ormai decaduta volontà di apprezzare l’arte cinematografica.
FONTI
- Art Directory
- Internet Movie Database
- Aforismi Meglio
- Alastaire Sooke, POP ART. Una storia a colori. IMaverick, Piccola Biblioteca Einaudi, 2016.
CREDITS