Siamo fatti anche noi della materia di cui sono fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita.
William Shakespeare
Quando nasce la creatività? Nell’istante in cui la mente si svincola dagli schemi di pensiero coercitivi, abbandonandosi alla libera associazione di idee. Ciò che André Breton, fondatore del Surrealismo, chiama automatismo psichico puro. Frammenti di realtà combinati in maniera inusuale. Pura immaginazione affidata a una cornice onirica, fiabesca, conturbante. Il sogno diventa così terreno di un immaginario surreale, che può essere efficacemente mediato dall’obiettivo fotografico. E la fotografia surrealista fa questo. Usa la lente come strumento di mediazione tra la realtà che viviamo e quella in cui forse vorremmo vivere.
Sono potenzialmente infiniti gli scenari in cui collocare i nostri sogni e Tim Walker, fotografo cardine di Vogue, li sperimenta nei suoi scatti. L’artista britannico ha soli venticinque anni quando realizza la sua prima fotografia per la rivista. Da quel momento, fa sua la citazione del fotografo Irving Penn: «Fashion photography is about selling dreams and not clothes». La fotografia di moda vende sogni e non abiti. Perché l’arte e il commercio si intessono inevitabilmente, ma è solo quando un’opera d’arte viene deprivata della sua funzione remunerativa che riesce a recuperare la sua aura. A comunicare con lo spettatore, stimolandone i desideri inconsci.
Carl Gustav Jung parla di inconscio collettivo, un immaginario archetipico condiviso dall’intera umanità. Vi appartengono gli archetipi, elementi eterni e immutabili appartenenti allo strato inconscio della psiche umana. Non hanno una forma, rappresentano tutte le possibilità realizzative dell’inconscio e si manifestano nel sogno. Sono i simboli su cui lavora Tim Walker, lasciando che lo spettatore venga trasportato in un universo incantato, ma al tempo stesso tangibile e vicino emotivamente a chi lo osserva. Non c’è nessun trucco, nessun effetto digitale, nessuna manipolazione sulle immagini che conservano la loro dimensione a grandezza reale.
Non potrei mai fotografare qualcuno solo per la sua bellezza. Devo entrare in sintonia con chi ho davanti, altrimenti significa che mi sto perdendo gli aspetti più interessanti di quella persona. Sono sempre stato così. Devo comunicare, creare connessioni con le persone, anche se solo per la durata di una tazza di tè prima di un set fotografico di dieci minuti.
L’artista riesce a rendere prossimo al soggetto qualcosa di apparentemente lontano. Un’atmosfera favolistica, tratteggiata tra le pagine dei racconti d’infanzia. Non può che sorgere spontaneo quindi il richiamo a Lewis Carroll e al suo Alice nel Paese delle Meraviglie, che unisce immagini fanciullesche, romantiche e gotiche. Walker le rende protagoniste dei dodici scatti del Calendario Pirelli 2018, un progetto fotografico di cui vengono incaricati, anno per anno, i fotografi più in voga del momento. L’originalità di Tim Walker sta nel rendere la fiaba total black, con protagoniste attrici del calibro di Whoopi Goldberg e Lupita Nyong’o, oltre che la meravigliosa “Alice Nera”, Naomi Campbell.
L’atmosfera gotico-romantica che Walker ricrea nel suo servizio si intreccia con l’estetica di Tim Burton, amico e collaboratore del fotografo, oltre che regista di fama internazionale. Burton agisce in modo da connotare piacevolmente tutto ciò che la società nasconde nell’oscurità. I suoi protagonisti sono mostri da amare in uno scenario oscuro e baroccheggiante, dove amore e morte si intrecciano inevitabilmente. È il lato conturbante e sinistro del sogno, dove vengono rovesciati i tradizionali schemi fiabeschi. Tutto ciò in cui crediamo potrebbe rovesciarsi da un momento all’altro, ma noi continuiamo a crederci, affidandoci al principio salvifico dell’immaginazione.
È il 2009 e Tim Walker sceglie di omaggiare gli stilemi di Burton in una raccolta fotografica per Harper’s Bazaar. Volti pallidi impreziositi da un trucco accentuato accompagnano le modelle del servizio, che indossano abiti di Chanel e Alexander McQueen. Pizzi, balze, veli sono gli elementi distintivi di Walker, tripartiti cromaticamente tra il bianco, il rosso e il nero, i colori di Tim Burton. Tutto è poi immerso in un’atmosfera bucolica, incorniciata da prati fioriti. In questo caso, ciò che rende il visibile surreale è il contrasto tra la sfarzosità e l’esuberanza degli abiti e la genuinità evocativa del paesaggio. Come se si concretizzasse un universo che non può sopravvivere alle leggi dell’esistenza quotidiana e perciò si rintana nell’immaginario onirico.
La potenza dello scatto fotografico nasce dall’unione tra il forte impatto visivo del ritratto umano e la cornice mistica della scena. È un palco teatrale, dove si intrecciano maschere comiche e tragiche che nascondono volti umani. Personalità infinitamente sfaccettate che l’artista indaga nella concezione che ogni cosa rimandi metaforicamente a qualcosa di più profondo. Ciò a cui si riferisce Calvino quando, ne Le città invisibili, afferma: «L’occhio non vede cose, ma figure di cose che significano altre cose». Rimane però, al di sotto della farcitura allegorica, il vero. La realtà a cui si appella l’artista per rendere universalmente comunicabile ciò che crea.
Per creare una narrazione servono i personaggi. Se le storie rincorrono sempre trame predefinite, sono i suoi protagonisti a fare la differenza. E quando l’autore muore all’ombra del suo personaggio, questo comincia realmente a vivere, a muoversi liberamente sul palcoscenico, come su un terreno familiare. Questo perché la sua psicologia si è perfettamente adattata alla storia che lo ospita. Ma come accade tutto ciò in fotografia? La fotografia surrealista si fonda sulla manipolazione dell’immagine, su una sua stimolazione in modo da farne scaturire il potenziale espressivo.
L’interiorità del personaggio viene esteriorizzata, facendo emergere sogni e aspirazioni. Il fotografo agisce come un burattinaio. Posiziona i suoi soggetti dove li vuole collocare e li lascia agire davanti all’obiettivo. Alcune volte sono le personalità più timide e meno abituate all’ambiente che danno le maggiori soddisfazioni. Perché tutto è affidato all’imprevedibilità del momento, come in un mondo fantastico di cui non si conoscono le regole e dove tutto può succedere da un momento all’altro.
Come Tim Walker, anche l’artista australiana Jane Long è una maestra della manipolazione creativa dei personaggi. Al contrario di Walker, però, la fotografa non parte da uno scenario vuoto che viene reinventato in chiave surrealista. Lei agisce su vecchie fotografie, insite di una narrazione già scritta che le racconti, ma prive di un potenziamento onirico. Ciò che manca agli scatti è la proiezione esterna del mondo interiore del protagonista. Non si vede in un tradizionale ritratto fotografico, ma vi risiede in potenza. È una delle infinite possibili realizzazioni delle aspirazioni del soggetto nel momento dello scatto.
Non vorrei sembrare mistico, ma a volte quando scatti una fotografia, quando tutte le scenografie sono al loro posto, c’è qualcosa che si impadronisce di te, e ti guida. È quel senso di fortuna e di occasione straordinaria. Gli scatti sono affascinanti e ricolmi di fortuna, e fai delle fotografie che non avresti immaginato nemmeno nei tuoi sogni più arditi. È questo il lato magico della fotografia.
La natura magica della fotografia surrealista risiede nella sua natura affine al rebus. Ogni immagine nasconde un sogno. Dietro ogni sogno si può annidare un desiderio o una paura. In questo gioco labirintico, a incastri, serve un eroe, una fata, un mago che possano risolvere l’enigma. Serve la fiaba come elemento risolutivo. E Tim Walker se ne serve per la maggior parte della sua produzione, bilanciata tra le atmosfere gotiche e l’immaginario favolistico a tinte pastello. Le sue eroine sono dame dalle gonne vaporose, che sfumano in tutte le tonalità dell’arcobaleno. Danzano in stanze barocche, tra specchi, gioielli, fiori. Sono delle bambole in un mondo da fiaba.
Walker però rifugge la convenzionalità della bellezza femminile. Le sue modelle hanno volti particolari, inconfondibili, che intrecciano l’elemento fiabesco con un tocco conturbante. Non a caso, volto di fiducia del fotografo è Tilda Swinton, dallo sguardo artico, che la contraddistingue ne Le Cronache di Narnia, e la raffinata eleganza. Accanto a lei compare Lily Cole, attrice e modella inglese dalla lunga chioma rossa riccia, la pelle diafana e gli occhi di ghiaccio, presente nel film Parnassus: L’uomo che voleva ingannare il diavolo. Qui, le atmosfere idilliache del sogno, conservano tutte una forte impronta pittorica surrealista.
Il richiamo immediato è a Salvador Dalí, che lavora parallelamente su pittura e fotografia, cercando di trasporre le sue idee surrealiste dall’una all’altra. Non c’è limite alla pazzia dell’idea che si vuole tradurre ed è questa la linea di pensiero che porta avanti Walker con la frase «Stay weird, stay different». Siate strani, siate diversi. Una concezione accolta pienamente anche da Philippe Halsman, il fotografo che costruì un sodalizio durato 37 anni con Dalí, a partire dal 1941. Halsman è famoso per l’invenzione della tecnica del jumping style, attraverso cui i suoi protagonisti venivano ritratti nel momento del salto, in modo da cogliere la spontaneità dello sguardo.
Immortala così Dalí, nel celebre scatto in cui l’artista è a mezz’aria insieme a gatti, sedie, dipinti e un getto d’acqua. Una sola immagine che traduce le potenzialità del rapporto creativo tra due menti artistiche. Halsman ne parlava così:
Almeno una volta all’anno ci incontravamo per giocare ad un gioco esilarante: creare immagini che non esistono, se non nella nostra immaginazione. Ogni volta che avevo bisogno di un soggetto straordinario per una delle mie pazze idee, Dalí si metteva gentilmente a mia disposizione. Ogni volta che Dalí immaginava una fotografia così strana da sembrare impossibile da realizzare, io trovavo una soluzione per realizzarla.
È evidente dunque l’importanza per la fotografia surrealista contemporanea di omaggiare i maestri, da cui zampilla l’infinita sorgente creativa. Tim Walker lo fa nel suo servizio per Vogue del 2002 intitolato Oh-oh!. Un titolo emblematico e particolarmente azzeccato perché i soggetti degli scatti sono gambe femminili prive del resto del corpo. Si muovono per la metropoli con eleganti gonne e scarpe col tacco e vengono ritratte in contesti differenti. Il richiamo dell’artista è a René Magritte e lo si denota dalla presenza dell’elegante uomo con cappello a cilindro, ricorrente nei dipinti dell’artista olandese. Complice è poi l’atmosfera visionaria ed evanescente ricreata da Walker in un contesto metropolitano.
La funzione dell’artista è quella di raccontare la propria epoca. In quella di Tim Walker, l’arte si nutre della sua componente commerciale e seriale e, all’interno della vaporizzazione della sua essenza, deve trovare un modo per emergere e comunicare. La moda è una delle infinite intercapedini in cui serpeggia la creatività artistica. Tim Walker, in venticinque anni di attività, è riuscito a rendere le fotografie di moda opere d’arte in cui si sposano stilemi affini e contrapposti, come il gotico e la fiaba principesca. Tutto ciò è immerso in un’atmosfera surreale, apparentemente lontana da noi, ma emotivamente efficace, perché espressione di desideri inconsci universali.
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