Ed è così buffo sapere che ti appartenga
prima ancora d’appartenere a me.
Una composizione d’amore, il ritrovare se stessi nell’altro, forma di appartenenza primordiale, trova compiutezza in questa coppia di versi che siglano la conclusione di una poesia, con un finale che stempera un amore e una ricerca travagliata nella parola vezzosa, e un po’ bambinesca, «buffo».
L’appartenenza identitaria – possibile solo dopo una digerita accettazione – è ricorrenza del libro Dolore Minimo, raccolta di poesie della giovane scrittrice esordiente Giovanna Cristina Vivinetto (classe ’94), che in questa silloge ci racconta, tra increspature di grande potenza poetica, la sua condizione di transessualità.
Si compone un dialogo tra due voci, un lui e una lei, racchiusi in una duplice unità. Si potevano fare la guerra e invece si sono ascoltati, conosciuti, accolti, facendo spazio a «tutto ciò che non si può controllare, ma semplicemente accade». Le poesie e la storia di Cristina Vivinetto ci insegnano la possibilità, e la caparbietà, della costruzione dell’amore, autentico e profondo, come quello materno.
Come scrive Dacia Maraini nell’introduzione alla raccolta, Vivinetto compie la fatica di essere «madre di se stessa», portatrice di un potere che può dare anche la morte. Ritorna la figura della Madre, la Madre cannibale che annienta per generare – «certe forze benefiche portano a volte l’inquietudine di mani violente» -, laddove anche un annientamento è atto di amore necessario. Si rinasce solo dopo una morte, dalle ceneri di un passato che è stato: «“sono tua madre, sono io” – gli dissi per acquietargli la morte».
Una raccolta che, nonostante il contenuto denso e di indiscutibile importanza, non cede alla facile scorciatoia del contenutismo, e rivela una lingua poetica autentica e raffinata che sorprende e incolla, seppur a tratti respingendo, a sé e alla poesia.
Di seguito, l’intervista all’autrice.
Com’è stata la genesi di Dolore minimo? È una raccolta di frammenti, poesie che hai seminato negli anni e ora raccolto o è stata una produzione a posteriori, un ripercorrere, quindi un rivivere, le orme del passato con uno sguardo diverso, mutato, o, come dici spesso tu, “rinato”?
La genesi letteraria di Dolore minimo è strettamente intrecciata al dato biografico della mia transessualità. Infatti, quando iniziai il percorso di transizione ritenni scelta saggia non parlare in letteratura di quel che mi trovavo ad affrontare poiché, per un senso eccessivo del pudore, credevo mi riguardasse troppo da vicino per scriverne con distacco. Eppure, due anni dopo l’inizio della terapia, mi ritrovai a comporre, in maniera inaspettata, poesie che parlavano proprio della transizione. Compresi così che quello era l’unico modo per dimostrarmi che ciò che stavo facendo era una cosa come tante altre e che in essa non c’era proprio nulla di mostruoso o contronatura. Anzi, capii che con la poesia avrei potuto rendere accessibile e alla portata di chiunque un dato così ostico da comprendere e spesso travisato, come quello della transessualità. Si tratta, dunque, di una riflessione poetica che avviene a posteriori gli eventi narrati e riguarda in sostanza l’elaborazione di un grande dolore, decisamente più lancinante.
Qual è nel tuo caso il germe benefico, la miccia infuocata, che ha scatenato la poesia? Quando hai iniziato a scrivere?
Il germe benefico che ispira la poesia è la poesia stessa. Quando ho iniziato a scrivere le poesie che poi sarebbero confluite in Dolore minimo, infatti, avevo ben impresse, nel cuore e nella mente, le suggestioni derivanti dalla lettura dell’opera omnia della poetessa polacca Wislawa Szymborska (La gioia di scrivere, Adelphi), premio Nobel per la Letteratura nel 1996. In particolare, di lei mi colpì la straordinaria capacità poetica di toccare argomenti profondissimi con una leggerezza disarmante. Compresi che la grandezza della Szymborska risiedeva proprio nel sapere arrivare a tutti, suscitando una riflessione profonda, partendo da un dato quotidiano, anche banale. La mia scommessa è stata voler realizzare una poesia che partisse da un dato personale (la transessualità) e, attraverso la versificazione, riuscire a renderlo accessibile a tutti.
Dolore minimo è il titolo del libro, il titolo di una sezione della raccolta, la ricorrenza di una poesia. Si intuisce che in questa formula risieda più di un semplice ed elegante ossimoro. Cosa significa allora l’inaspettata espressione “dolore minimo”?
Dolore minimo, che è un titolo piombato inaspettato, quasi una folgorazione, significa esattamente questo: la rielaborazione letteraria di un dolore più grande, all’apparenza insormontabile e incomprensibile. Con la poesia ho potuto comprendere a pieno questo dolore, farlo completamente mio e, di conseguenza, consegnarlo all’altro, al lettore, in una circolarità che è anche estensione di significato, intima condivisa accettazione. Solo accettando questo dolore in quanto tale ho capito la sua relatività, intravedendo in esso l’occasione per poter crescere.
Il libro si compone di tre sezioni, capitoli di vita compiuti: Cespugli di infanzia, La traccia del passaggio, Dolore minimo. Quest’ultima sezione si apre con i seguenti versi: «Per acquietare il male che lo assale \ il poeta lo canta». In questa poesia, il poeta è investito di un potere speciale, che, se da una parte lo rende più scoperchiato di fronte alle intemperie della vita, dall’altra lo fa più forte del male: «Il poeta ha per sé l’arma della luce \ a rischiarare i vuoti d’ombra,\ le fessure dove s’annida, il male». Quanto è stata per te la poesia, e in particolare questa silloge, un mezzo per metabolizzare, limare, e forse anche liberare il dolore?
La poesia, a mio avviso, è quel mezzo che permette di ricucire gli strappi, conciliare le contraddizioni, interpretare in sommo grado, sublimandole, le ambiguità del reale. Per me la poesia è stata l’occasione per scendere a patti con una me che non riuscivo a capire in pieno – o, meglio, che credevo di capire ma, in verità, non conoscevo affatto. Nel momento in cui ho nominato quel “male” in poesia, esso ha cessato di essere “male”: infatti, in un’altra poesia affermo che «…quel mostro che in tanti anni / avevo allontanato, fu assai più / docile quando, abolite le catene, / lo presi in fine per mano». La poesia concede questo miracolo.
Un altro aspetto che ricorre è il pudore pubblico verso il dolore. Di fronte alla sofferenza, al male, la gente tende ad arretrare, negare, chiudere gli occhi, forse quasi sempre come forma di protezione. Tu lo dici con versi bellissimi: «Tu non sai, ma ci sono solchi \ estranei alla luce degli occhi. \ Benedico il tuo non comprendere,\ l’innocenza con cui ti arresti \ un poco prima del dolore \ — l’istinto di tirarti fuori.\ Non chiedere: non ho sintagmi \ con cui adornare la realtà delle cose.\ Non ho perifrasi per salvarmi». Pensi che la società di oggi immersa nei social, dove si postano solo foto smaltate e sorridenti, abbia fatto dei passi indietro verso l’accettazione, non tanto del diverso, ma del negativo e della sottrazione? Cantare, scrivere delle proprie ferite – e quindi mostrarle, sottoporle al pubblico – può essere un gesto che va controcorrente, che combatte questo bene necessario e spesso fasullo?
I social, purtroppo, sono un’arma a doppio taglio. Se, infatti, da un lato consentono il confronto e la diffusione di idee positive volte all’accrescimento della cultura e della consapevolezza circa il proprio ruolo in relazione all’altro da sé, dall’altro lato – e il più delle volte, purtroppo – al confronto subentra lo scontro, fatto di ignoranza, pregiudizio e analfabetismo funzionale. Una delle soluzioni, allora, potrebbe essere proprio questa: far sì che la letteratura inizi a permeare anche il mondo virtuale dei social, facendo propria una missione civile e culturale finalizzata in primis ad abbattere questi muri invisibili costruiti sull’odio, sull’intolleranza e sulla mancanza di rispetto per tutto ciò che è percepito come “diverso” e “minaccioso”. D’altro canto, le numerose presentazioni che, in quasi un anno, ho svolto in lungo e in largo per l’intera penisola mi hanno dimostrato innanzitutto una cosa: le persone sono aperte al cambiamento e questa “diversità” tanto ostentata come mezzo per creare ostacoli e divisioni, non solo non è percepita come un dato minaccioso ma, anzi, è vista come un’inesauribile risorsa da condividere e fare propria per diventare cittadini migliori. Allora, checché se ne dica, è importante parlarne, sensibilizzare, fare in modo che la conoscenza abbatta il pregiudizio e la cultura ci guidi verso l’apertura mentale.
Hai già in serbo – in mente o in sogno – una nuova produzione?
La scrittura ha un posto essenziale nella mia routine perché la poesia, a mio avviso, è consustanziale alla vita: corre in parallelo a essa, se ne appropria, la assorbe, la comprende, la reinterpreta in sommo grado. Attualmente sto lavorando al seguito di Dolore minimo, che sarà pubblicato non prima del 2020 nella collana di poesia contemporanea dell’editore BUR.
G. C. Vivinetto, Dolore Minimo, Interlinea, 2018
Intervista all’autrice