Beale Street è un luogo preciso, una strada nel cuore di Memphis, Tennessee, famosa come centro di cultura afroamericana e culla della musica blues e soul. Ma Beale Street è anche un simbolo universale, la strada nera per antonomasia presente in ogni grande città americana. È un punto di riferimento, un luogo quasi sacro, un rifugio dalle ingiustizie di una società razzista e discriminante. A Beale Street si nasce e si muore, si ama e si odia; qui si mescolano suoni e colori, gioie e tragedie, successi e fallimenti, in un flusso ininterrotto di emozioni che è la vita stessa.
In una di queste Beale Street d’America, precisamente a Harlem, New York, è ambientato Se la strada potesse parlare, l’ultimo film del regista di Moonlight Barry Jenkins. Tratto dal romanzo If Beale Street Could Talk di James Baldwin, racconta la difficile storia d’amore di due giovani afroamericani nell’America degli anni ’70. Tish (l’esordiente Kiki Layne) e Fonny (Stephan James) si conoscono fin da quando sono bambini; cresciuti insieme, alle soglie dell’età adulta si accorgono di amarsi di un sentimento insieme timido e appassionato. La forza del loro legame sembra in grado di superare ogni ostacolo, compresa l’avversione della futura suocera nei confronti della ragazza o i casi di quotidiano razzismo che complicano la vita della coppia. Tutto cambia quando Fonny è ingiustamente accusato di stupro e finisce in prigione a causa delle macchinazioni di un poliziotto bianco di cui, suo malgrado, si è attirato le antipatie. Tish, che nel frattempo è rimasta incinta, si batte con l’aiuto della sua famiglia per ottenerne la scarcerazione, scontrandosi col muro di un’indifferenza che cela i pregiudizi radicati a fondo nella cultura americana.
Se la strada potesse parlare è un film di contrasti e ambivalenze, in primo luogo tra lo stile in cui è girato e la materia che racconta. I cromatismi vibranti e rigogliosi, i lenti movimenti di camera, le forme voluminose e quasi monumentali, i primi piani prolungati costituiscono un’estetica liricheggiante dai forti accenti poetici e idealizzati che all’apparenza stona con il contesto storico e sociale della storia, quello di una Harlem anni ’70 dove crimine, povertà e degrado erano all’ordine del giorno. Ma la bellezza struggente delle immagini, in realtà, serve a evidenziare ulteriormente la contrapposizione tra la giovanile innocenza dei due protagonisti e la crudeltà del mondo circostante. Amore e odio si scontrano continuamente, anche grazie a un racconto non lineare che alterna i piani temporali intrecciando al difficile presente le rievocazioni quasi oniriche dei momenti felici dell’immediato passato.
Come la strada che dà nome al film, anche la vicenda di Tish e Fonny ha insieme valenza particolare ed esemplare. La loro storia è quella di molti altri, è un racconto di disillusione, di rabbia ma anche di speranza e caparbietà, quelle di chi scontrandosi con le difficoltà della vita non si rassegna alla sconfitta, per quanto inevitabile possa apparire. Pur partendo da specifiche circostanze Jenkins riesce, con costante attenzione per il dettaglio, a elevare la narrazione a una dimensione universale che trascende i confini del suo ancoraggio storico. L’opera è ulteriormente arricchita dalle notevoli performance attoriali (spicca tra tutti Regina King, vincitrice di un premio Oscar nel ruolo della madre di Tish) e da una colonna sonora malinconica e sognante.
Tuttavia, il film rimane pur sempre ambientato in un luogo e un tempo ben definiti, con un bagaglio di precise tematiche richiamate dalle diapositive in bianco e nero che mostrano veri episodi di violenza ai danni della popolazione nera. Razzismo e mancanza di diritti civili fanno da sfondo costante alle vicende narrate e determinano l’esistenza dei protagonisti. Le ingiustizie e i pregiudizi verso gli afroamericani sono all’ordine del giorno e assumono forme molteplici: l’attitudine intrisa di patriarcale arroganza del vecchio uomo bianco nei confronti della giovane Tish; la ghettizzazione dei quartieri neri; gli arresti e le incriminazioni arbitrarie. Pur senza essere mai ostentata, la realtà di discriminazione emerge dai gesti, dalle parole, dagli sguardi. Non varchiamo le soglie della prigione per assistere direttamente agli abusi subiti da Fonny, ma i segni sul suo volto e i racconti dell’amico che in cella c’è già stato bastano ad evocarli con vivido orrore; non presenziamo al suo processo, ma emerge comunque con chiarezza la natura corrotta di un sistema giudiziario truccato.
Se davvero la strada potesse parlare, questa è la storia che racconterebbe: una storia d’amore e di pregiudizi, di crudeltà e affetti familiari, di entusiasmi e delusioni. La storia di un’umanità tanto ferita e oppressa quanto caparbia e orgogliosa, che non intende arrendersi.
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