Omicidio onirico

Lei fissò gli occhi sulla lama lucida della lima da unghie con cui lui stava giocherellando. Guardò le dita farla ondeggiare, lasciarla in bilico su un polpastrello, passare l’indice sull’estremità appuntita e leggermente arcuata.

Erano seduti nel letto, con le gambe allungate davanti a loro sul piumone stropicciato, la TV era accesa ma avevano tolto il volume per parlare: comunicare era già diventata un’impresa quasi impossibile, quindi era obbligatorio eliminare qualsiasi rumore di sottofondo. Lui teneva lo sguardo basso sulla lima mentre le diceva cose che lei non capiva; le parole si perdevano nell’aria tra di loro e svanivano, non le arrivavano neanche alle orecchie, guardava quelle labbra muoversi senza sentire nulla, mentre il suo corpo si tendeva sempre di più, pronto a scattare come una bestia selvatica.

Non c’è altro da fare, pensò. Non c’è altra soluzione. È inevitabile. O così o così. Devo farlo. Lo farò. Non ho scelta.

Nel silenzio profondo e ovattato come quello che si sente quando si mette la testa sott’acqua, con un solo movimento lei gli strappò dalle mani la lima e gliela conficcò nella pancia. Spinse a fondo, ancora più a fondo, con tutte le sue forze. La lama trapassò la maglietta di cotone bianco e affondò nella pelle, poi nella carne e poi nelle viscere. Un fiotto di sangue si riversò tra le pieghe del piumone. Le immagini dentro al televisore continuavano a muoversi senza far rumore.

Devo fare in fretta, pensò. Senza il minimo tremito sollevò il corpo morto, lo fece rotolare giù dal letto e lo portò sul balcone; una scia di sangue rosso scuro macchiò il parquet marrone e il bordo delle tende gialle. Lo abbandonò lì, scomposto, con gli occhi riversi all’indietro e l’espressione di terrore che aveva avuto nella frazione di secondo della morte sul viso.

Si chiuse la porta finestra alle spalle, uscì dalla camera, uscì dall’appartamento e corse giù dalla tromba delle scale. Era fatta. Era fatta. Non aveva avuto altra scelta, era stata praticamente obbligata. Ora era finalmente libera. Quando era uscita sul balcone trascinandosi dietro il corpo aveva sentito il calore del sole batterle contro la schiena, ma quando mise piede in strada fu investita da una corrente di aria gelida, non c’era più luce e il cielo era grigio e coperto di nuvole, minacciava pioggia. Immediatamente il tempo si disperse e si frantumò in mille pezzi.

Cosa ho fatto? Cosa ho fatto?

Iniziò a tremare. L’aveva ucciso, era morto. Era morto per sempre, era irrimediabile, non si poteva più tornare indietro. Non era più vivo, non avrebbe mai più potuto parlare con lui, non l’avrebbe mai più visto, non sarebbe più esistito. O meglio, avrebbe continuato a esistere, ma non più in quel mondo. Rimase sgomenta.

Sentì le sirene di un’ambulanza, o di una macchina della polizia sfrecciarle accanto. Il suo cuore iniziò a battere forsennatamente, perse il respiro e restò immobile in mezzo al marciapiede. La luce diventava sempre più grigia, il cielo scendeva sempre di più, su di lei, sopra di lei, addosso a lei, la schiacciava e lei non poteva più muoversi. I palazzi alti che la circondavano si stringevano intorno a lei.

Ma il pensiero era quello, il punto centrale e nevralgico era quello: lei lo aveva ucciso, e lui non era più vivo. Non lo sarebbe stato mai più. Sarebbe stato fisicamente morto, ma avrebbe continuato a vivere dentro di lei, dolore su dolore, un coltello conficcato sopra a un altro coltello; l’impossibilità di comunicare, di amare, di parlare, di vedere, e in più la consapevolezza di una eterna convivenza, giorno dopo giorno, con il rimorso di quello che aveva fatto. Era troppo, non avrebbe potuto sopportarlo. Il mondo iniziò a girare davanti ai suoi occhi e lei si sentì precipitare nel vuoto.

Morto. Morto. Morto.

Il suo corpo fece uno scatto improvviso e involontario. Si svegliò in preda alle vertigini, quando aprì gli occhi vide il soffitto oscillare e sentì una goccia di sudore scivolarle dietro al collo. Si tirò su a sedere senza fiato, tenendosi una mano appoggiata sulle palpebre, per proteggersi, per non perdere la testa, per non lasciarla scappare via.

Era stato solo un sogno, solo un sogno, solo un sogno. Non l’aveva fatto veramente. Lui era ancora vivo, vivo e vegeto, vivo, semplicemente, ancora nel mondo, nello stesso mondo in cui era lei.

Si riaddormentò con la bocca impastata, con la pelle impastata, con il corpo intero impastato, accartocciato e frantumato.

 


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