La mamma è sempre la mamma;
di lei ce n’è una sola;
e soprattutto sono tutte belle le mamme del mondo!
Anche per la storia dell’arte frasi fatte e luoghi comuni possono talvolta collidere con l’evoluzione plastica e la rappresentatività plurisecolare del binomio maternità-bellezza.
Invero si potrebbe credere che sia più coerente e onesto raccogliere un’antologia grafica di esempi raffinati e graziosi, esempi che omaggiano una madre paladina dell’Umanità attraverso quadri, statue o mosaici in grado di descrivere la donna nel suo più totale, evidente e indocile fascino.
Ma se la vera grazia delle figure materne nell’arte giacesse in un fondo di militante bruttezza?
Qui non c’entrano nulla quei canoni estetici dei quali ci si potrebbe avvalere per commentare le singole opere, anzi – mettendo in disparte la boutade tra parere soggettivo e criterio oggettivo, visuale platonica o aristotelica, apollinea e dionisiaca – quei canoni si sono modificati più che mai, decollando imprudentemente verso un mondo di inevitabile ambiguità.
Se le prime forme di rappresentazione della Donna-Madre risalgono al Paleolitico Superiore, e si sta parlando delle conosciutissime Veneri preistoriche, quei monili di pietra pseudo-pornografici risalenti al 30000-20000 a.C., va detto che queste tecniche scultoree essenziali, nella loro consistenza gessosa e facilmente lavorabile, non si curavano solamente della duttilità erotica delle forme, volutamente prosperose e abbondanti, ma esprimevano la brutta dolcezza curvilinea con il quale erano scolpite.
La grossezza dei seni, dell’addome e dell’utero erano il manifesto di una donna che era già diventata un mistero senza fine bello, un rito propiziatorio che per nove mesi si sarebbe sdoppiato, triplicato, quadruplicato addirittura in caso di parto plurigemellare.
Anche in alcune incisioni rupestri realizzate a partire dal 15000 a.C. vengono raffigurati alcuni animali sgraziati e appesantiti dal ‘pancione’ della gestazione; cavalli e renne gravide, volutamente lasciate libere e non cacciate, si spera, dalla forza indomita maschile, in onore del sacro mistero della vita.
L’idolo matriarcale e femminile persiste nella sua forma divinizzata per moltissimi secoli, incontrando nel parere devozionale una riconoscenza molto fortunata.
Si pensi solo a come le figure plastiche delle divinità femminili elleniche, tra cui Venere, Era e Atena, venissero intenzionalmente portate in processione con una frequenza assai maggiore rispetto alle divinità maschili, più statiche e, benché divinità seminali, non abbastanza prospere alla venerazione comune.
E se la statua romana descrive e incornicia una donna vezzosa e succinta, fascinosa e piacente, (si pensi al ritratto di profilo di Livia o alla la Musa de Louveciennes del III secolo d.C.), i secoli a seguire offrono le prime raffigurazioni di epoca cristiana, con un’attenta e palese dose di sobrietà, fino a raggiungere a una beltà più seriosa e restia nelle raffigurazioni sacre delle Madonne in trono.
In epoca precimabuesca, per esempio, è certamente doveroso ricordare la Madonna col bambino di Coppo di Marcovaldo. La Madonna del Bordone, dipinta a partire dal 1261, illumina una figura materna con uno sguardo possente, governante ed estremamente severo, in grado di imprimere però un’insolita serenità nell’osservatore fedele.
La grande Vergine Odigitria (dal greco bizantino Oδηγήτρια, cioè “colei che guida”) siede altezzosa e umile al contempo nell’atto soave di pizzicare tra le proprie dita il piede destro del Salvatore in fasce.
Facendo un gran salto avanti, per quanto riguarda il contributo artistico moderno, è innegabile che la vera grande madre della baraonda contemporanea rimanga senza alcun dubbio la celeberrima Fontana di Marcel Duchamp.
Come è risaputo nel 1917 l’artista, con lo pseudonimo di R.Mutt, decise di esporre un’opera che gridò allo scandalo e diede vita a non poche polemiche in campo europeo, finanche a una nuova forma d’interpretazione artistica.
Un orinatoio rovesciato, un oggetto di per sé volgare e adoperato dal sesso maschile, per ironica beffa diventa simbolo di femminilità, imponendosi come una nuova morale: la morale della ‘scelta’.
In un universo troppo abituato alla bellezza quotidiana che aleggia e circonda la realtà, l’unica ed essenziale utilità delle cose diventa il timbro di un nuovo potere.
La Fontana di Duchamp, la “suffragetta suffragata” dell’arte novecentesca, diviene un vessillo materno di un nuovo parto, quello che Freud amava definire «il peggior trauma per una donna». Anche per questo motivo Duchamp firmò la sua provocazione con la parola Mutt, l’abbreviazione del tedesco mutter, cioè madre.
Non ci deve sorprendere che un pizzico di orrore, accostato e mescolato alla dolcezza della maternità, abbia dato vita – e forse già concluso – a un’epoca dove la mamma odierna è sparita dall’arte, essendo abbonata al comune disinteresse della prole, all’abbandono del coniuge, al luogo comune e a una bellezza che è sempre poco difesa o consacrata di rado.
In realtà, soprattutto nel panorama artistico, la madre ha sempre avuto la funzione ambivalente di riscatto, di redenzione femminile e di novazione d’infinite epoche che hanno scordato ciò che non è poi così brutto ammirare.
- Il Cricco di Teodoro. Itinerario nell’arte, VOL.mi I-III, Zanichelli, 2012
- VIAE