A giugno del 2018 usciva per l’editore Voland il romanzo d’esordio di Giorgia Tribuiani, Guasti. Collaboratrice della Bottega di narrazione di Giulio Mozzi e autrice della raccolta di racconti Cronache degli artisti e dei commedianti (Tespi, 2008), Giorgia Tribuiani, classe ’85, con Guasti ha tratto l’ancora e spiegato le vele per salpare alla volta del mare letterario contemporaneo.
Con un discorso indiretto libero, che si sovrappone e si compenetra con la voce narrante e i pensieri della protagonista Giada, la scrittura di Guasti ridefinisce la realtà e ce la restituisce nella forma di viluppo informe e relativo. Tra continui rimbalzi dalla prima alla terza persona, il lettore trova ospitalità nella mente in subbuglio di Giada e conosce la realtà tramite il suo sguardo, deformato dagli ansiolitici, da una recente perdita dolorosa e da ricordi prepotenti che ingombrano le anticamere della mente e fendono come squarci un reale intorpidito e sognante.
Guasti è una storia complessa che intreccia diverse tematiche: l’elaborazione del lutto, il rapporto di coppia come spazio di sfregamento tra due io inconciliabili, il bisogno di affetto, di amore e di accettazione privata e pubblica. È un romanzo attualissimo che sa mettere in campo criticità che abitano la quotidianità e che, attraverso la forza e la non-forza di Giada, parla un po’ di e a tutti noi.
L’idea al centro di Guasti – la plastinazione del corpo di un uomo – è senza dubbio originale, insolita; un tema che, come viene trattato nel tuo romanzo, oscilla tra il macabro e l’ironico. Come è nata questa idea?
L’idea è nata proprio dopo aver visto una mostra di corpi plastinati: mi sono accorta che a interessarmi non erano tanto i cadaveri, quanto i visitatori. Se è vero che spesso gli ambienti vengono deformati dagli sguardi, che i luoghi non sono fatti solo delle cose che li compongono ma anche del nostro modo di guardarli, in quella mostra questo era più vero che mai: anziché rendersi conto di essere di fronte alla morte, i visitatori attraversavano le sale come avessero di fronte un’esposizione qualsiasi, osservando i corpi con curiosità. Mi sono chiesta cosa sarebbe accaduto se a un tratto fosse entrata una persona spinta da motivazioni differenti, portata lì dal desiderio di commiato anziché dalla curiosità. Il suo sguardo differente e le sue azioni avrebbero potuto compiere la trasformazione inversa, riportando la mostra al suo status di cimitero e il cadavere-opera a quello di essere umano?
Il romanzo, che poi si è arricchito lungo la strada di altre tematiche, è nato da questa domanda.
Dato questo carattere insolito della storia, che forse la rende “difficile” rispetto a quello che circola nell’editoria italiana di oggi, che tipo di riscontro stai avendo dal pubblico?
Durante le presentazioni mi è capitato di conoscere persone un po’ frenate dal carattere perturbante del romanzo, ma in generale mi sembra che l’accoglienza sia stata buona: il macabro è l’elemento che consente alla protagonista di fare esperienza del limite, di rendere più intensa la sua vita interiore e di esasperare le sue scelte; lo stesso corpo morto, osservato attraverso il filtro dell’amore, attraverso lo sguardo di Giada, non genera repulsione ma compassione.
Al di là di questo, a volte ricevo messaggi da lettori che mi domandano la mia posizione in merito alla plastinazione, all’arte contemporanea, ai temi principali del libro, e per me questa è una delle cose più belle in assoluto: pensare che il romanzo sia riuscito in qualche modo a porre delle domande, a stimolare delle riflessioni, mi fa credere di avere trasmesso qualcosa.
Guasti è il tuo debutto letterario; un romanzo – che sia il primo che sia l’ultimo – è sempre un’impresa: implica fatica, dedizione, ma una volta conclusa l’opera ripaga di tutti gli sforzi. Com’è stato per te il processo di scrittura, di stesura del romanzo?
Scrivere Guasti è stato molto bello; sono partita da un’immagine, quella di una donna che si faceva strada tra i corpi plastinati per raggiungere quello del compagno, e tutta la storia è “sgorgata” da questa scena che, forse, conteneva in nuce tutti i temi del romanzo: l’impossibilità di elaborare il lutto quando la persona scomparsa continua a essere presente, esistente anche se in altra forma; la condizione “guasta” di Giada, corpo vivo tra i corpi morti; la sua inadeguatezza, gli alibi, la scelta di autosqualificarsi pur di non arrivare seconda nel confronto con un uomo che, anche dopo la morte, è ancora una volta su un piedistallo.
In meno di quattro mesi ho concluso la prima stesura, mentre un arco di tempo molto più lungo l’ho dedicato a quelle successive, lavorando per più di un anno al perfezionamento della lingua: sebbene il romanzo fosse già nato con l’uso del discorso indiretto libero, durante tutto il lavoro di revisione mi sono concentrata sull’obiettivo di portare il lettore nella mente di Giada. Un lavoro per il quale devo ringraziare anche Giulio Mozzi, che mi ha offerto preziosissimi consigli.
Una delle tematiche al centro di Guasti è il rapporto, difficile, quasi inconciliabile, tra privato e pubblico. Cos’hai provato tu nel vedere le tue parole, una parte di te, esposta e quindi sottoposta all’occhio pubblico?
Quando ho saputo che Voland avrebbe pubblicato il romanzo, insieme alla gioia grande è arrivata, inaspettata, anche la paura. Da un lato era una paura personale – per me la scrittura era sempre stata una sorta di rifugio, il luogo dove portare le cose dolorose per cercare di trasformarle in qualcosa di bello, e d’un tratto questo rifugio apriva le porte – mentre dall’altro a preoccuparmi era il senso di responsabilità: l’autore mette nell’opera le proprie immaginazioni, le proprie domande, ma non può controllare in alcun modo gli effetti che queste avranno sul lettore.
Fortunatamente, dopo la pubblicazione, queste paure sono via via scemate, anche grazie alla bella accoglienza che i lettori hanno dedicato a Guasti. Anche il timore degli effetti si è trasformato giorno dopo giorno in curiosità: è stato molto interessante scoprire come le interpretazioni fossero a volte ben diverse dalle mie idee iniziali.
Quali sono le tue letture affezionate? Hai degli autori, dei numi tutelari, di riferimento?
Per quanto riguarda i classici sono molto legata alla letteratura mitteleuropea e alla russa, con una particolare predilezione per Dostoëvskij, ma la mia formazione deve tanto anche ai classici dell’orrore, da Edgar Allan Poe in poi. Spostandoci più avanti nel tempo, Thomas Bernhard e David Foster Wallace, sia per la lingua sia per l’approccio alla scrittura.
Tra i miei libri preferiti ci sono poi Solaris di Stanisław Lem, uno dei più bei romanzi mai scritti sul tema dell’incomunicabilità, La strada di Cormac McCarthy e Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez. E infine un libro italiano: Il male naturale di Giulio Mozzi.
Sì, leggo autori contemporanei. Oltre al già citato Giulio Mozzi, apprezzo molto Michele Mari e Laura Pugno, una scrittrice dall’immaginario assolutamente originale, a partire dal romanzo Sirene.
Sono poi un’amante della prosa musicale e del discorso indiretto libero, per cui non posso non citare Cella di Gilda Policastro, mentre se parliamo di letture recentissime, quelle degli ultimi tre mesi, tengo a menzionare Edoardo Zambelli con il suo Storia di due donne e di uno specchio e – non senza qualche imbarazzo, dato che si tratta di mio cugino – Fabio Bacà con Benevolenza cosmica. Uscendo dal panorama italiano la scoperta più recente è Gospodinov, che mi ha stregata con Fisica della malinconia ma anche con i bellissimi racconti della raccolta E tutto divenne luna.
Ho visto che stai lavorando a un nuovo romanzo. Ci puoi svelare qualcosa di più?
Blu è la storia di una diciassettenne tormentata dalla colpa e dall’impossibilità di raggiungere la purezza: soffre del disturbo ossessivo-compulsivo e cerca rifugio nel disegno e nella pittura, che tuttavia non riescono a darle un sollievo sufficiente. Un giorno, però, Blu entra in contatto con la performance art, una forma artistica basata in buona parte sul rituale e sull’uso della ripetizione, e se da un lato quest’ultima sembra la via più adatta per trasformare la compulsione in qualcosa d’altro, per convertire il dolore in bellezza, dall’altro l’ossessione di Blu si estende dalla quotidianità al rapporto con questa nuova arte e, in particolare, alla perturbante e fascinosa performer che Blu sceglie come insegnante. La storia si presenta come un romanzo di formazione ma anche come il tentativo di rispondere alla domanda: può una malattia, un disturbo, diventare un’opera d’arte?
Si tratta di una storia a cui tengo tantissimo, visceralmente, e che non vedo l’ora di vedere trasformata in un libro.
Giorgia Tribuiani, Guasti, Voland, 2018