“Chiamatemi Tiresia” – l’indovino Camilleri incanta il Teatro

Siracusa, teatro greco, una notte stellata di giugno. Ancora una volta, uomini e déi si incontrano. La storia millenaria delle antiche pietre prende vita in un turbine di energia. Come Sofocle o Euripide, Andrea Camilleri scopre il mistero delle pietre eterne, partecipa al rituale antico del teatro. Camilleri è Tiresia, l’indovino tebano, protagonista del mito e della storia. In comune la cecità e il bagaglio di vita vissuta, le anime del Maestro e dell’indovino si uniscono nello stesso corpo e danno vita a un’impresa spettacolare. Conversazione su Tiresia è un monologo teatrale scritto e interpretato da Andrea Camilleri, diretto da Roberto Andò e andato in onda su Rai1 in prima serata il 5 marzo. Superati i 90 anni, il Maestro ha percepito l’esigenza d’indagare l’intimità di un personaggio eterno. Per fare questo non vi è luogo più adatto del teatro antico di Siracusa, il palcoscenico più magico del mondo.

Ho trascorso questa mia vita ad inventarmi storie e personaggi. L’invenzione più felice è stata quella di un commissario conosciuto ormai nel mondo intero. Da quando Zeus, o chi ne fa le veci, ha deciso di togliermi di nuovo la vista, questa volta a novant’anni, ho sentito l’urgenza di riuscire a capire cosa sia l’eternità` e solo venendo qui posso intuirla, solo su queste pietre eterne.

Camilleri utilizza il personaggio di Tiresia, con il quale si identifica, per ripercorrere una storia personale e privata, ma anche universale, poiché mitologica. Attraverso lo spazio e tempo della letteratura, da Omero alla più stretta contemporaneità, Tiresia dialoga con i fantasmi del suo passato, in uno scambio di emozioni muto e privo di risposte. Tiresia, infatti, è solo sul palco; cerca conforto negli spettatori, che non riescono a trattenere gli applausi. Appare in scena per l’ultima volta, quasi a dare un congedo al mondo, come se stesse dichiarando testamento. Tiresia è vittima e appare sul palco nella sua purezza di uomo: la fragilità è quella del debole di fronte al nemico, l’eroe di fronte alla Fortuna o agli dei.

Ma chi è questo indovino? La domanda, apparentemente semplicissima, lascia interdetti: i molteplici rifacimenti letterari e teatrali, infatti, gettano ombre sul personaggio. Secondo la mitologia, Tiresia era figlio di un mortale e di una ninfa. Per aver visto sul monte Citerone due serpenti in amore e avendo ucciso la femmina con un bastone, fu trasformato in donna. Sette anni dopo, su consiglio divino, uccise il maschio e tornò uomo. Riguardo la cecità, due versioni concorrono. Camilleri rifiuta l’ipotesi di un accecamento dovuto alla punizione inferta da Atena (Tiresia l’avrebbe vista nuda), crede piuttosto che la causa sia una diatriba tra gli dei. Zeus e la moglie Era, infatti, chiamarono Tiresia come giudice di un duello: “chi riceve più piacere in un rapporto sessuale? L’uomo o la donna?” Era, non accontentata dalla risposta, accecò l’indovino e Zeus, per compassione, gli donò la capacità di prevedere il futuro e vivere sette generazioni.

Tiresia, quindi, è un personaggio passivo. Non è l’eroe pericoloso che predice i disastri delle città. Non è l’indovino sfrontato che si accanisce contro Agamennone e lo induce a sacrificare Ifigenia. Soprattutto non è, come sostiene Luciano di Samosata (autore satirico greco), un ermafrodita dotato di due sessi, usati alternativamente e, certamente, non riusciva ad auto possedersi. Camilleri si schiera a favore dell’indovino: il personaggio solo, sul palco, rivendica la propria autenticità e conduce il pubblico ai primordi del mito. Tiresia è una vittima: la sua metamorfosi non fu volontaria, ma causata da una punizione divina ingiusta e incoerente, poiché Tiresia non violò alcuna legge. La cecità, ad esempio, fu inferta dagli dei a un innocente. Camilleri accentua il vittimismo del personaggio, sottolineando il fastidio provato da Tiresia nell’essere chiaroveggente e la sofferenza subita nel vedere il doloroso futuro degli uomini. Perciò si rifugiò lontano, in una grotta sul monte.

Nonostante la chiarezza del mito, le interpretazioni d’autore hanno generato suggestioni e adattamenti. Camilleri propone un’indagine, chiara e ricca di emozione, attraverso i numerosi rifacimenti. Il punto di partenza non può che essere Omero: Ulisse chiede a Tiresia la via più breve per tornare a Itaca. Da lì, passando attraverso la letteratura latina, dalla prosa al teatro, la narrazione approda nel Medioevo. Sopra tutti c’è Dante, che collocò Tiresia all’Inferno, insieme a sua figlia Manto, la negromante. Il 1900 poi, fu il secolo in cui Tiresia ottenne un esito felice: Virginia Woolf ne trasse un capolavoro, Orlando, Durrenmatt lo inserisce tra i personaggi in La morte della Pizia, Ezra Pound lo considera protagonista in Cantos.

Camilleri, con uno sguardo spesso critico, dimostra la vitalità di un personaggio della letteratura. Con un linguaggio semplice e teatrale, indirizzato a un pubblico vasto, il Maestro prova a dimostrare l’immortalità della “realtà di carta”. Da millenni infatti, il personaggio di Tiresia continua, attraverso mascheramenti o allontanamenti dal mito, a incollarsi nell’immaginario di lettori e spettatori. Tiresia vive in un mondo e tempo lontani e si reincarna ogni volta, nelle pagine di un libro o in uno spettacolo teatrale. Dopo millenni di racconti, Camilleri presenta con chiarezza il fascino e il danno provocati dagli adattamenti. In un’intervista afferma:

Io racconto il destino di un protagonista letterario, che è stato esaltato e bistrattato: faccio il punto della situazione.

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