Il bello e il buono sono la stessa cosa?

Quello che risulta dall’incontro tra etica ed estetica, tra virtù e bellezza, è un rapporto di matrice vaga e complessa: in che misura due ambiti dell’esperienza umana che, almeno storicamente, si sono trovati così spesso collegati, condividono una provenienza epistemologica, derivano da una comune educazione intellettuale?

Non è difficile trovare casi accertati di vicendevolezza: l’arte dei regimi novecenteschi nelle sue intenzioni propagandistiche, quindi morali, nel senso della veicolazione di un ethos politico e monumentale; l’arte chimerica delle popolazioni afro-amerindiane, nei suoi accenti sapienziali e nelle sue finalità rituali; e poi l’arte paleocristiana, quella napoleonica, l’aulos greco, il realismo post-bellico… Se, come ci insegna primariamente Kant, l’autonomia del giudizio estetico è pre-concettuale e quindi non può essere ridotta ad altri ordini di giudizio, allora l’ulteriore demarcazione di questa emancipazione del sentimento ne delinea la sua intrinseca permeabilità, la sua predisposta qualità di poter-esser-tutto e classificarsi in ogni modo e maniera.

Corrompendo una frase molto in voga nel secolo scorso, potremmo assumere che tutto è estetica, giacché la non-specificità del linguaggio del gusto, l’esuberanza inclassificabile dei termini bello!, brutto!, stupendo!, permette all’arte e all’espressione sentimentale in generale d’interessarsi di qualsiasi cosa e di maneggiare, adeguare, a volte persino imbarbarire, ogni branca e regione del pensiero umano, comprese quelle dedicate all’etica e alla morale.

Il bello di cui parla Platone è una qualità ontologica, e questo perché è la traccia sensibile del Bene. La cosmologia etica dell’ateniese comprende il bello come ekphaneston, ovvero la cosa più manifesta, che permette al filosofo, ai demoni e a chiunque cerchi un salvacondotto iperuranico, di approssimarsi fugacemente all’Idea. Pur non potendosi ancora trattare di estetica, termine settecentesco, potremmo azzardare nel dire che la proto-estetica platonica è essenzialmente una diramazione del suo ben più comprensivo ordine etico, che non lascia contemplare altri ordini d’interesse per la verità.

Questa visione insiemistica del bello in ordine al Bene è di certo familiare, se non del tutto ereditata, dalla più antica tradizione sapienziale ellenica; giacchè, come ricorda Esiodo, il compito del poietès non è semplicemente quello di stuzzicare il gusto del fruitore, ma di veicolare tà alethèa – le cose vere – concesse alla sua mente dalle Muse. Tutto il sapere dell’antichità greca, un sapere artistico (Omero, Esiodo, Pindaro…) si articola in questo modo, in particolare nella sua connotazione etica. Come leggiamo nell’Inno Delio, la mousikè è indirizzata all’educazione di esseri umani inconsapevoli ed inermi, pragmaticamente incapaci di vivere.

E, spostando l’attenzione sugli stessi temi in chiave moderna, è interessante vedere come l’arte e gli oggetti estetici in generale siano in grado di insegnarci a vivere: questa almeno è l’intenzione del Guernica di Picasso, della Corazzata Potemkin di Ejzenstein o dello Schindler’s list di Spielberg. Dall’infinita plasticità e resilienza del dominio dell’arte risulta il facile adattamento dei suoi scopi concreti ad ogni modalità del reale, tanto che il linguaggio estetico possa sistemarsi in ogni intercapedine del discorso su qualunque cosa.

Partendo da un’altra prospettiva, l’identificazione tutta storica tra arte e morale/politica non è un modello che ha capacità di estendersi al dominio universale delle pratiche estetiche, dal momento che l’arte rimane quell’occorrenza comunicativa sempre pronta all’uso specifico, ma mai esaurita in esso. Sono egualmente estetici i campi del vezzo, dell’impegno sociale, del pop e del d’essai.

Se l’arte, quindi, può prendere forme etiche, è solo perché può essere così, ma non c’è nessuna relazione di necessità tra gusto e ragione morale.

È certo vero che l’arte si pone ad un livello di comunicabilità universale, di comunione degli spiriti, nell’ordine non di un sapere condiviso, ma di una pulsione di istinto ascetico compartecipato.

Per questo l’arte può essere certamente coinvolta in considerazioni e battaglie ideologiche, ma rimanendo nel suo livello astratto e autonomo di disimplicazione: l’art pour l’art, potremmo dire, le cui declinazioni sono occorrenze non esaustive della sua essenza. Paolo D’Angelo, professore di Estetica al’università di Roma Tre, nota che se autori come Wittgenstein hanno affermato che “etica ed estetica sono un tutt’uno”, è perché i due concetti sono assunti come riconosciuti nella loro diversità, non ponendosi dunque nel campo teorico di specificazione semantica dell’originalità dei significati. Scrive D’Angelo:

“Entrambe sono produttrici di un valore intrinseco, cioè non riconducibile ad altre forme di positività”.

Quindi, originariamente inconciliabili e familiari solo in maniera derivata.

L’arte, come ogni prodotto trans-storico, è un evento occasionale, e le sue generalità, dedotte a posteriori dall’estetica artistica, tendono ad adeguarsi alla fiducia nel libero gioco della sua pratica, alla sua possibilità concettuale di disporsi infinitamente a organizzarsi in infiniti modi. L’estetica, comunque, non studia gli oggetti dell’etica, può persino arrivare a disinteressarsene. Essa è, per l’appunto, lo studio di quel disinteresse originario che caratterizza il sentimento.

L’arte per l’arte è prodotto e fruizione di un sentimento puro – né buono né giusto – ma possibile e potente veicolo di Bene e Giustizia.


Fonti:

P. D’Angelo, Estetica, Editori Laterza, Roma, 2011

 

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