Catarsi

Mi svegliai come ogni mattina al suono della sveglia: 7.20.
Maledizione, mi ero scordata di spegnerla la sera prima: era domenica.
La spensi e mi rigirai sull’altro fianco.
Dormii ancora un’oretta, poco profondamente, prima di aprire definitivamente gli occhi.

Eddy mi aveva lasciata. Mi aveva lasciata, la sera prima. Da un momento all’altro, senza una reale motivazione. O, perlomeno, senza una spiegazione che risultasse plausibile ai miei occhi.
Era tutto assurdo. Non era accanto a me, non sentivo il calore emanato dal suo corpo, il suo respiro pesante e irregolare. Non sentivo niente.
Scesi dal letto e infilai l’apparecchio acustico, aprii la porta cigolante della mia camera e andai in bagno.
L’acqua del lavello scorreva forte picchiettando sulla ceramica crepata. Produceva un suono che avevo sempre considerato rassicurante: in un certo modo dava il ritmo alla mia giornata.
Quella mattina odiai quel suono. Odiai quel freddo e sempre uguale scorrere dell’acqua, odiai lo stridere della manopola per chiudere il getto. Mi sembrava tutto fuori posto.

Nulla aveva lo stesso suono di tutte le altre mattine, e capii che non l’avrebbe avuto mai più. Ogni cosa era fastidiosamente uguale e insopportabilmente diversa dai giorni precedenti.

Eddy ti odio, dio solo sa quanto ti odio per avermi fatto questo.

Mi tolsi l’apparecchio e lo lanciai malamente sulla scrivania disordinata, indossai la felpa e i pantaloni della sera prima, ancora impregnati di lacrime e di tabacco.
Sul tavolo della cucina la mia coinquilina aveva lasciato una ciambella e un bigliettino che neanche lessi. Addentai con aggressività la ciambella e uscii.

Fuori la giornata era soleggiata e tiepida. In quel periodo vivevo a Bushwick, Brooklyn, e la fermata della metropolitana più vicina era Dekalb Ave.
Il treno non tardò ad arrivare, quando poco dopo arrivai alla stazione. Le persone sul vagone parlavano tra di loro con quell’aria rilassata tipicamente domenicale, nessuno di loro andava a lavorare.
Io li guardavo come drogata, assuefatta dall’assenza di suono.
Potevo solo tentare di interpretare i loro gesti. Potevo vederli ridere, starnutire o grattarsi senza sentirne il rumore.
Il treno fluttuava silenzioso.

Dopo un viaggio la cui durata mi parve infinita, scesi nel posto più affollato che mi venne in mente: Times Square. Mi sentivo estremamente calma, come sedata.
Salii le scale verso la superficie: i miei passi non facevano alcun suono, né quelli di tutti gli altri. Non riuscivo nemmeno a ricordare come fosse lo scalpiccio dei passi: la mia memoria uditiva sembrava essere rimasta a casa insieme all’apparecchio che mi permetteva di crearla. Non riuscivo a ricordare nulla di ciò che in tutti quegli anni avevo udito, ma in quel momento mi convinsi che si trattava di un meccanismo di difesa della mia mente. Avevo troppe, tante cose da dimenticare, insieme ai suoni che le avevano accompagnate.

La piazza era gremita di gente. Luci, colori. odori. I miei sensi erano vigili come mai lo erano stati prima di allora, potevo percepire ogni cosa intorno a me. E nonostante non potessi fisicamente ascoltare tutto ciò che mi circondava, mi sentivo onnipotente: mi sembrava di stare sopra a tutto, isolata e allo stesso tempo perfettamente consapevole di ogni movimento, mio e degli altri.
Camminai facendomi trascinare, trasportata dalla corrente umana che si dipanava in ogni direzione. Mi abbandonai completamente alla volontà della folla silenziosa, come su una montagna russa.
Mi lasciai andare senza opporre alcuna resistenza, concentrandomi solo sugli altri sensi: vista, tatto, olfatto, gusto.

Sentivo di essere, finalmente, libera: ero al centro del mondo senza la possibilità di ascoltarne la voce.

Tra me e Eddy era finita.

 


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