La teoria della “guerra giusta” ha una lunga tradizione che ha origine da Agostino D’Ippona,il primo a porsi il dilemma di giustificare una guerra come giusta o ingiusta. A partire dalla sua premessa, ovvero che il fine di ogni guerra deve essere la pace, egli introduce un ulteriore significato alla guerra rispetto alla concezione del mondo antico greco e romano, la cui sola ragione era quella di affermare il potere della propria superiorità con l’uso della violenza e della forza militare. Agostino pone quindi le condizioni, che verranno successivamente riprese da Tommaso D’Aquino, affinché una guerra possa considerarsi giusta: che sia dichiarata dall’autorità legittima, che abbia una causa specifica finalizzata a riparare un’ingiustizia o un’aggressione nemica e che vi sia una retta intenzione di chi dichiara la guerra per amore della pace.
In epoca medievale la “guerra giusta” fu successivamente legittimata teologicamente in “guerra santa” dall’opera del monaco cistercense Bernardo di Chiaravalle, con il suo concetto di scontro tra il bene e il male e della guerra come necessità di restaurare l’ordine voluto da Dio. In nome della fede, la chiesa giustificò le crociate contro gli infedeli e le atrocità compiute dagli spagnoli nella conquista del nuovo mondo e il genocidio degli Indios. Dalla riflessione morale dei massacri compiuti su questi popoli, posti in schiavitù da parte dei conquistadores Cortez e Pizarro, nacque una disputa sulla guerra giusta nel 1550 a Valladolid in Spagna. Promosso dall’imperatore Carlo V d’Asburgo, il dibattito si svolse tra i domenicani Bartolomè de las Casas e Francisco de Vitoria, in favore del diritto a difendersi da parte del popolo delle Americhe, contro l’umanista Juan Ginès de Sepulveda, sostenitore della legittimità di una guerra giusta spagnola contro gli Indios definiti schiavi per natura (richiamando persino Aristotele). Nonostante questa famosa disputa che si risolse senza vincitori né decisioni politiche, la teoria della guerra giusta raggiunse la sua massima affermazione e legittimazione continuando a sostenere e creare masse di devoti e di fanatici soldati cristiani.
In età moderna con la nascita dei regni e degli stati la concezione della guerra giusta passa dalle motivazioni religiose a quelle della necessità di ampliamento della potenza e dei territori considerati vitali e di diritto da parte dei sovrani. Con la costituzione delle nazioni e dell’avvento del diritto internazionale scompare il concetto di guerra santa, ma rimane la teoria politica di guerra giusta sostenuta anche da Thomas Hobbes nel suo Leviatano come paradigma di relazione fra gli stati. A partire dal patto di obbedienza degli uomini fatto al sovrano e agli stati-sovrani, Hobbes indica nella guerra la necessità di tutela di autoconservazione degli individui che possono mettere in atto ogni tipo di azione bellica contro gli stati che minacciano alla loro sicurezza o per la necessità interna di una loro espansione territoriale. Una teoria che prenderà sempre più spazio fino ad arrivare all’estrema posizione politica e militare di Karl von Clausewitz, generale prussiano, che definirà la guerra come un atto di forza per i cui fini non esistono limiti: un puro atto di violenza il cui obiettivo è costringere l’avversario ad eseguire la volontà del più forte. Una teoria che resisterà in modo tenace durante tutto il periodo del colonialismo fino alla Prima Guerra Mondiale.
Gli anni Sessanta furono quindi percorsi sia da un pacifismo assolutistico che pose il rifiuto radicale dell’uccisione dell’altro uomo, sia da un pacifismo pragmatico che metteva in discussione il ricorso alla violenza bellica non come principio ontologico del non uccidere ma come inopportunità delle conseguenze di una guerra atomica o convenzionale-tecnologica.
Dopo la fine della guerra fredda e il tramonto dell’equilibrio bipolare USA-URSS nel mondo, la nascita del terrorismo e l’attacco alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001, ridiede un nuovo impulso alla rinascita della teoria della guerra giusta. In questo contesto ripresero quota la tesi di un esponente del realismo politico e intellettuale americano come Michael Walzer che già nel 1977 scrisse un saggio, Guerre giuste e ingiuste, che prendeva spunto dalla sua riflessione sulla guerra del Vietnam. In questo saggio Walzer sosteneva il concetto della guerra giusta che avrebbe dovuto essere combattuta solo per propria autodifesa o in difesa di altri stati, con un principio centrale che i civili non avrebbero mai dovuto essere oggetto di attacchi militari ed essere preservati dagli effetti dei combattimenti. Una logica di principio sempre negata dai terroristi le cui azioni, al contrario, tuttora prendono di mira principalmente obiettivi civili. Riprendendo la sua teoria critica della guerra giusta, Walzer entra nel merito dei conflitti a lui contemporanei per sostenere il principio dell’emergenza suprema che fa i conti con la giustizia e il superamento dei limiti oltre cui intervenire. Egli inoltre pone un forte richiamo ai diritti umani per cui è lecito intervenire quando vi è una aperta violazione della legalità come nella Guerra del Golfo del 1991, in Kosovo nel 1999, o in Iraq nel 2003, ribadendo anche la posizione sul doppio effetto di una guerra giusta che può giustificare i “danni collaterali” ai civili quando questi non sono voluti e non sono sproporzionati rispetto al valore dell’obiettivo.
La morale che Walzer vuole sostenere è, nella sua forma filosofica, una dottrina dei diritti umani che arriva a giustificare con l’etica dell’emergenza anche gli interventi e la guerra preventiva contro il terrorismo (contro il principio della carta dell’ONU che non giustifica gli interventi preventivi). Questa posizione di Walzer porta a un rinnovato concetto della guerra giusta al terrorismo, in cui l’uso intenzionale della forza militare diventa non solo moralmente giustificabile ma addirittura un dovere etico e giuridico che va oltre le ipotesi previste dalla Carta delle Nazioni Unite e che vedrà dare legittimità al conflitto afghano contro i talebani nell’ottobre del 2001 e in Siria, Iraq nel 2014 contro lo stato islamico jiadhista dell’ISIS (Islamic State of Iraq and al-Shām).
Anche il filosofo americano John Rawls, teorico del neo-contrattualismo politico, diede il suo contributo al sostegno della guerra giusta col suo saggio del 1999, Il diritto dei popoli, che si fonda su un’idea liberale di giustizia ideale in un mondo in cui i cittadini e i popoli potrebbero vivere in pace. Rawls, infatti, sostiene una concezione della giustizia a fondamento delle norme e dei principi della politica internazionale che si pone contro uno stato che viola i diritti umani e il diritto naturale e giuridico dei popoli democratici. Secondo Rawls infatti, i popoli liberali sono tenuti a non tollerare gli stati “fuorilegge” e ad intervenire con la forza quando questi rappresentino una minaccia per le istituzioni e per gli individui nelle loro libertà fondamentali di popoli liberali, anche nei casi di quando le sanzioni nei loro confronti non si dimostrino sufficienti al ripristino di tali diritti.
La suprema emergenza o l’eccezionalità del male diventa quindi un criterio morale decisivo per l’intervento militare per ripristinare il bene e il diritto violato e per rappresentare anche un motivo di dissuasione e punizione dei criminali. Tuttavia, nel mondo contemporaneo, il ricorso ai principi della guerra giusta ha spesso dato l’illusione di poter combattere contro quei regimi che negano i più elementari diritti umani come il fondamentalismo islamico o altre dittature come quella libica di Gheddafi, senza però risolverli alla radice. Gli interventi per affermare il potere della superiorità culturale dei valori dell’occidente e per ripristinare le libertà delle popolazioni oppresse, anziché portare a una pace duratura hanno spesso innescato un processo di guerra permanente e condotto a una stagione politica fondata sull’odio e sulla rappresaglia. Il discusso principio ideologico e morale della guerra giusta sembra ancora lontano dalla sua teoria di una applicazione efficace nella risoluzione dei conflitti.
Francisco de Vitoria, De iure belli, trad. C. Galli, Laterza, Bari, 2005.
Thomas Hobbes, Leviatano, trad. a. Pacchi, Laterza, Bari, 2008.
Bertrand Russell, Saggi impopolari, La nuova Italia, Firenze, 1963
Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il mulino, Bologna, 2009
Michael Walzer, Guerre giuste e ingiuste, trad. di F. Armao, Laterza, Bari, 2009.
John Rawls, Il diritto dei popoli, trad. F. Palminiello, Einaudi, Torino, 2001.