L’artista e designer Bruno Munari sperimenta il panorama immaginario infantile attraverso libri che non si possono leggere, ma solo esperire sensorialmente.
Nel 1949 esce la raccolta de I libri illeggibili di Bruno Munari, edita da Mondadori. Il titolo può sembrare ossimorico, improbabile, sbagliato, ma in sé contiene un messaggio rivoluzionario. Il libro non è più letto attraverso le parole, ma esplorato tramite i cinque sensi. Ma come è possibile? Come può un libro comunicare senza parole e immagini? È come se d’improvviso perdesse i suoi peculiari strumenti comunicativi, lasciando il lettore in un labirinto di possibilità interpretative. Tuttavia è proprio questo il progetto di Munari. Permettere al lettore di sviluppare liberamente la propria creatività. Ovvero, quella magica unione di fantasia e razionalità, che permette di creare mondi inventati all’interno della concretezza progettuale di un oggetto, come un libro. Per accendere la miccia creativa, nascosta nei volti grigi, omologati e apatici della società contemporanea, ciascun individuo deve però richiamare alla luce la propria natura fanciullesca. In quest’ottica pascoliniana, il soggetto sarà in grado di cogliere la realtà da una diversa prospettiva, con gli occhi curiosi e ingenui di un bambino, l’unico in grado di aprirsi a una piena conoscenza plurisensoriale.
È un libro di comunicazione plurisensoriale, oltre che visiva. Fu così che nacquero i “libri illeggibili”, così chiamati perché non c’è niente da leggere, ma molto da conoscere attraverso i sensi.
Munari lancia quindi una sfida al mondo editoriale, unendo arte e letteratura in un progetto pedagogico. L’artista guarda al Menabò come modello, un libro in fase embrionale, ancora privo dei suoi elementi contraddistintivi. Non è ancora nulla. È solo una griglia, una gabbia preparatoria per l’impaginazione, dove poi saranno inserite parole e immagini. Si tratta quindi di un libro nudo, aperto alla sua libera manipolazione. E Munari fa esattamente questo. Colora le pagine, distinguendole con tipi di carta differenti, lascia buchi e tagli sui fogli di celluloide e rilascia nel suo libro compiuto diversi profumi e odori. Il risultato è un libro illeggibile, letteralmente, perché non ha una storia, un intreccio narrativo, non si sa dove inizia e dove finisce e può essere esplorato a partire da qualsiasi pagina. Ritorna quindi alla memoria la domanda che si era posto Munari all’inizio del suo progetto: «Il libro come oggetto, indipendentemente dalle parole stampate, può comunicare qualcosa?». La risposta è sì, poiché si propone come laboratorio tattile, esperienza sensoriale, atta a stimolare le possibilità creative dell’individuo, o meglio del bambino.
Questo perché l’esperimento di Munari si rivolge ai bambini, in cui ancora folleggia la voglia di sperimentare, di toccare con mano quello che non conoscono, senza paura. C’è quindi qualcosa di estremamente misterioso nella carta ruvida che contrasta con quella liscia, nelle pagine traslucide che si intervallano al cartoncino. Soprattutto quando le unisce un filo rosso, passando attraverso un buco che trapassa il libro da parte a parte. Si tratta del Libro illeggibile N.Y.1., dove l’effetto sensoriale è creato dal fruscio del filo contro le pagine di diverso materiale mentre si sfoglia il libro. Al tempo stesso i colori differenti agiscono come stimolo ottico e gli svariati profumi e odori che avvolgono le pagine permettono di sfruttare al meglio l’olfatto. Come recita Alberto Mondadori:
Forme, colori, spazi, accordi, ritmi, possono essere usati come linguaggio per esprimere delle sensazioni, degli stati d’animo, per “raccontare” qualcosa. […] Colori allegri, colori tristi, drammatici, pesanti, vaporosi, forme lievi, fragili, decise o accennate, angolose o morbide, pagine sottilissime, pagine rigide, molli o dure, opache o trasparenti, intatte o strappate, possono diventare un linguaggio comune a ogni essere umano.
Mondadori parla di linguaggio comune a ogni essere umano, poiché sfrutta elementi corporei, che ci appartengono carnalmente. Non si tratta più di combinare parole in una narrazione, ma di manipolare l’esistente così come ci appare, nella sua forma più rude e vergine. Ciò che ne risulta è una storia, in entrambi i casi, ma affrontata secondo vie complementari. La prima procede dalla mente verso l’oggetto, la seconda segue la direzione inversa. La prima proietta la fantasia tra le note d’inchiostro sulla carta, la seconda esplora la natura materica della carta e la trasforma in una realtà fantastica. Il secondo modo di procedere è quello che appartiene al mondo dell’infanzia e che rende i bambini portavoce di un modo di comunicare genuino e diretto. Che effetto possono avere però nella contemporaneità i laboratori tattili di Munari? In una società digitalizzata dove le parole e le immagini si vaporizzano nell’etere del mondo informatico, si spera che i bambini non possano mai perdere un contatto diretto con il mondo, assaporandone ogni singola sfaccettatura e immergendovisi. Nonostante il passare del tempo, l’esperimento di Munari offre comunque una cornice innovativa e assolutamente rivoluzionaria al mondo artistico-letterario. Perché quindi complicare la realtà, quando la si può semplificare guardandola con consapevole ingenuità?
Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare.