La marcia del sale di Gandhi del 1931, le manifestazioni non-violente organizzate da Martin Luther King negli anni Cinquanta, i moti studenteschi sviluppatisi nel Sessantotto a livello internazionale… Tutti questi episodi vengono oggi considerati indispensabili punti di frizione per giungere a un’indubbia evoluzione dei diritti civili. Eppure diversa fu l’accoglienza che ricevettero dalla società del tempo, che guardò a questi movimenti con timore, quando non mise addirittura in atto forze di opposizione. Ma cosa provocò reazioni così dure? E soprattutto, cosa intendiamo davvero con disobbedienza civile?
Non è un mistero che uno Stato, per esistere, abbia bisogno di ordine, di leggi, di norme che regolino la vita sociale. E che i singoli individui, per convivere pacificamente, debbano rispettare tali norme. Ma sono l’obbedienza e il seguire gli ordini davvero privi di rischi? Non bisogna scavare troppo in profondità nel passato per trovare risposta a questa domanda, è sufficiente soffermarci sulla storia del Novecento per incontrare i cosiddetti mostri dell’obbedienza, per usare l’espressione di David Gros.
Primo tra tutti, torna alla mente l’Eichmann presentato da Hanna Arendt ne “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” (1963). Condannato per crimini contro l’umanità e crimini contro gli ebrei dallo Stato di Israele, fu impiccato nel 1962. L’opera della filosofa, il cui intento era quello di ripercorrere il processo Eichmann, ebbe fin da subito una risonanza eccezionale a livello mondiale. Questo perché la figura che emerge dalle pagine della Arendt non è il carnefice spietato che ci aspetteremmo, ma piuttosto un grigio burocrate la cui unica colpa risiederebbe nell’aver rispettato gli ordini che arrivavano dall’alto. E’ proprio con i fascismi del Novecento infatti che emerge il lato più oscuro dell’obbedienza cieca ed assoluta, quando la responsabilità viene segmentata e i criminali divengono semplici esecutori di comandi, che sembrano non rendersi conto delle loro stesse azioni.
Inseriti in tale contesto, come vengono interpretati gli atti di dis-obbedienza? Possiamo davvero considerarli manifestazioni di delinquenza, di contravvenzione criminale alle norme prestabilite? Piuttosto, non sarebbe meglio leggere la disobbedienza civile come la volontà di dare ascolto alla propria coscienza, di reclamare maggiori responsabilità, attraverso consapevoli azioni di dissidenza, in un mondo che cerca invece sempre più di allontanarle da sé? Così, la disobbedienza civile si trasforma in un indispensabile carburante per la democrazia, piuttosto che in una minaccia per la stessa.
In tale quadro vanno interpretate le campagne non-violente di Gandhi, che condussero l’India all’indipendenza dall’Impero Britannico nel 1947; così come l’impegno di Martin Luther King per la garanzia dell’uguaglianza tra afroamericani e bianchi negli Stati Uniti degli anni Cinquanta. Non a caso il suo celebre discorso I have a Dream (1963) <<Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Io ho un sogno, oggi!>> ci pare ancora adesso un inno alla modernità. La stessa considerazione vale per i moti studenteschi del Sessantotto, che avevano come obiettivo l’allargamento delle basi dell’istruzione e la riduzione delle differenze tra uomo e donna ancora persistenti, anche sotto il profilo di una liberalizzazione dei costumi. In tutti questi casi la disobbedienza civile, tanto osteggiata da un’intimorita società, ha portato invece ad un indubbio progresso civile.
La disobbedienza può quindi non a caso essere considerata uno strumento essenziale della democrazia, indispensabile per il suo progresso. Tali atti infatti non mirano a sovvertire leggi ed istituzioni, ma piuttosto ad un loro rinnovamento, per meglio rispondere alle esigenze del futuro. Oltre che, come già detto, fungere da contrasto ai pericoli dell’eccessiva sottomissione.
È infine quantomeno doveroso soffermarsi sulla situazione attuale, per non scivolare in quella pericolosa condizione di cecità e allontanamento della responsabilità da cui la storia ci mette in guardia. Particolarmente sensibile ai giorni nostri è la tematica dell’immigrazione. Riguardo a tale tematica l’Italia si dimostra (secondo l’indagine Global Views on Immigration and the Refugee Crisis, svolta dall’IPSOS in venticinque Paesi nel 2017) uno degli Stati più disinformati. Il sondaggio rileva infatti che secondo gli italiani, in media, il 30% della popolazione del nostro Paese sarebbe composta di immigrati. I dati reali, ben diversi, si aggirano attorno all’8,5%. Dalla stessa ricerca emerge che solo il 10% degli italiani crede che l’immigrazione abbia un impatto positivo sul Paese; mentre il 66% ritiene che ci siano troppi immigrati. Il 58% è convinto che la spesa pubblica per i migranti sia eccessiva e solo il 9% valuta positivamente l’operato dell’Unione Europea. Come interpretare questi dati, che sicuramente sono espressione dei nuovi timori suscitati dai flussi migratori (quante volte abbiamo sentito parlare di “immigrati che rubano il lavoro”?) quando nel solo 2015 sono morti nel Mediterraneo più di tremila settecento esseri umani?
È nel momento in cui la percezione della popolazione si fa così distorta rispetto ai dati reali che è forse più necessaria quell’azione di dis-obbedienza di cui si è parlato. Un caso esemplare è rappresentato dalla Carta di Palermo, approvata il 20 marzo 2015 dalla Giunta comunale e dal sindaco Leoluca Orlando, in seguito al convegno Io sono persona. Essa promuove il diritto alla mobilità internazionale (scontato per noi europei, eppure non ancora appannaggio di tutti), e propone come punto chiave una modifica alla legge sulla cittadinanza attraverso l’abolizione del permesso di soggiorno. L’idea – e l’ideale – è il <<passaggio dalla migrazione come sofferenza, alla mobilità come diritto umano>>. Tale azione consapevole rappresenta oggigiorno un esempio di disobbedienza civile quale presa di coscienza e accettazione delle proprie responsabilità, che promuove un progresso sociale e civile necessario alla nostra democrazia.
Donatella Di Cesare, Elogio alla Disobbedienza, La Lettura (Corriere della Sera), 10 Febbraio 2019.