È il Dicembre del 1952 e Sylvia Plath, al terzo anno allo Smith College, scrive un racconto intitolato Mary Ventura and the Ninth Kingdom e lo invia al magazine «Mademoiselle» – dove l’anno successivo avrebbe svolto un praticantato – che tuttavia lo rifiuta. Rimasto nascosto per più di 60 anni, Mary Ventura and the Ninth Kingdom è stato pubblicato in Inghilterra e negli Stati Uniti solo poche settimane fa, dopo essere stato ritrovato negli archivi dell’autrice ed è tuttora inedito in lingua italiana.
Sottile, ambiguo e pieno degli spunti ancora acerbi che matureranno nel più compiuto La Campana di Vetro, la storia di Mary Ventura è tuttavia un racconto che non mancherà di entusiasmare chi ha amato le altre opere di Plath. L’intera storia si svolge a bordo di un treno – se sorvoliamo le prime pagine, ambientate lungo i binari della stazione. Mary Ventura è con i suoi genitori: la madre le sistema una ciocca di capelli dorati sfuggita dal cappello di velluto, il padre la esorta a sbrigarsi se non vuole perdere il treno.
Ma Mary non è convinta, non vuole partire e nella sua titubanza si inizia a intravedere l’atmosfera misteriosa e vagamente inquietante che permea l’intero racconto:
“Madre” disse Mary, fermandosi sentendo il rumore del mastodontico motore sul binario incassato. “Madre, oggi non posso andare. Semplicemente non posso. Non sono ancora pronta per il viaggio”.*
Ma i genitori insistono e Mary si ritrova presto seduta al posto che il padre ha scelto per lei, la valigia sistemata nella rete sopra la sua testa. Accanto a lei si siede
una donna ansimante e dal viso arrossato, con una borsa color terra in mano. I suoi occhi blu si stagliavano in una massa di rughe e la sua bocca grande e generosa si estendeva in un sorriso.
Rassicurata dalla presenza della compagna, Mary scopre poco a poco che il loro incontro non è casuale; mentre la protagonista non sa assolutamente nulla del viaggio e della destinazione che la attende, la sua nuova amica sembra sapere molte cose del treno su cui si trovano, sulle fermate e sugli altri passeggeri. Ma soprattutto sembra sapere molte cose sulla stessa Mary e sulla fermata a cui è destinata: «il nono regno, il regno della negazione, dell’annichilimento della volontà».
Definito dalla stessa autrice «un racconto vagamente simbolico», viene spontaneo chiedersi quale sia il senso vero di questo viaggio, di questo treno su cui la protagonista viene spinta dai genitori malgrado le sue – seppur molto deboli – rimostranze. È molto semplice, per chi conosca già il romanzo di Plath e la sua raccolta di poesie Ariel, ritrovarvi in nuce tutti gli elementi, stilistici e biografici, che contraddistingueranno la sua scrittura.
Il viaggio di Mary verso il “regno dell’annichilimento della volontà” ricorda il viaggio (psicologico, questa volta) della protagonista de La Campana di Vetro, Esther. Che il Nono Regno simboleggi sottilmente la difficile condizione della depressione, di cui Plath soffrì in prima persona e che la spinse a tentare il suicidio proprio negli anni in cui scrisse questo racconto, è indubbio. Persino i suoi compagni di viaggio sembrano presentarne i sintomi:
Sono così blasé, così apatici che non gliene frega niente fino a che non arriva il loro momento, nel nono regno. Sono ciechi, sono tutti abbastanza ciechi.
Così come per Esther, la salvezza non arriva dall’esterno; Mary, spaventata, tenta di chiedere aiuto alla donna, ma questa le dice chiaramente che non c’è più nulla da fare, una volta che si compra il biglietto per quel treno non c’è modo di tornare indietro. Ed è allora che la protagonista si salva, prendendo la sua prima decisione autonoma in tutto il racconto, un atto di volontà che dimostra alla sua compagna di viaggio che per lei c’è ancora speranza:
“Ah” sussurrò: “Bene, hai davvero del fegato. Non ti vuoi arrendere. Questo è l’unico trucco rimasto. L’ultima affermazione di volontà che ti era rimasta. Credevo che persino questo fosse congelato. Ora so che c’è una possibilità”.
Grazie a questo desiderio di ribellarsi alla decisione dei genitori, spinti ad allontanarla forse più per timore delle convenzioni sociali che per preoccupazione nei confronti della figlia, Mary scappa dal treno e da una destinazione misteriosa e inquietante.
La vera abilità dell’autrice sta nel creare, pur in poche pagine, un’atmosfera ambigua e sottilmente inquietante, di disagio vago e indefinito che ricorda, lontanamente, certi recenti romanzi distopici, in cui agli individui è negato il diritto di esercitare la propria volontà. Mary Ventura and the Ninth Kingdom è un racconto brevissimo ma già pieno dei semi che germoglieranno nelle opere più mature di Sylvia Plath; si intuisce uno stile ancora acerbo ma già inconfondibile e una scelta di componenti fortemente autobiografiche che permeeranno i lavori successivi. Di fatto, un volume imperdibile per chi ha apprezzato La Campana di Vetro e vuole leggere quello che, forse, ne è stato lo spunto iniziale.
* Tutte le traduzioni sono a opera dell’autrice.
S. Plath, Mary Ventura and the Ninth Kingdom, Faber&Faber, 2019
S. Plath, La Campana di Vetro, Mondadori, 2016