Dante Alighieri, il più grande poeta di tutti i tempi, è ancora oggi l’inconsapevole messaggero di una meravigliosa e impareggiabile intuizione cosmologica. E questo non perché egli abbia saputo dipingere, nello spirito del suo tempo, il più grande ritratto enciclopedico-didascalico dell’eternità cristiana, ma perché la figura di questo lavoro, l’infinito ed amplissimo oscillare semantico della Commedia, vive e rivive nella natura logica delle nostre speculazioni sull’eterno. Dante non è stato solo una guida alla cosmologia etica della Nuova Alleanza, ma un coraggioso e rigoroso maestro dell’eterno, filosofo irraggiungibile del concetto di “eternità”. È dal fine filologo e filosofo Erich Auerbach, con il suo capolavoro Mimesis, che possiamo prendere spunto per denotare in maniera chiara e rigorosa il terreno di quella grande intuizione metafisica del Fiorentino che, riletta in chiave contemporanea, può fornire i giusti spunti per un “pensiero dell’eternità”.
Già Hegel, nelle sue Lezioni di Estetica, riconosceva a Dante il risultato metafisico della trasposizione del reale in a-temporale, dello storico nel trascendentale. È infatti una vecchia questione scolastica la paradossale sintesi dialettica della Commedia: un poema sublime nel contenuto e nella sintassi che si serve di soluzioni all’estremo del realismo, del sensibile pittorico. Descrizioni carnali, profonde ed aspettuali che non inceppano la sublime logica di un narrare sacro, redentore. Diremmo che Dante riesce a parlare dell’eterno proprio perché è in grado di spiegarlo a partire dall’assolutamente-reale. Egli non è né un fine allegorista, astratto teologo di ex-cessioni spirituali, né un vivo realista. Non gli si confanno né le invisibili pagine di Origene né le tangibili lettere di San Francesco, né le alte anime di Plotino né i bassi miraggi di Diogene. Non cerca, com’è familiare a molti mistici, di scavare nel reale per trovare l’eterno, ma riesce a capire in che modo il materiale possa essere figura di Dio. Non c’è nessuna violazione dell’ontologia del mondo: solo l’emergere di una valutazione spirituale che più si confà a ciò che materialmente esiste. La Storia, gli eventi terreni, sono assunti in tutta la loro concretezza. Gli individui, le anime incarnate, sono gli elementi reali e concreti di quella Storia. È quindi nell’assunzione del valore pienamente compiuto dei fatti reali che è possibile la valutazione dell’eternità: il Giudizio Divino permette che ciò che sia concretamente mondano diventi il tassello di un ordine celeste, senza essere sgravato della sua potenza esistenziale e senza che la sublime e trascendente lettura degli avvenimenti del mondo in una chiave spirituale, alla luce dell’ordine cosmologico della Grazia, deponga le credenziali di una narrazione ancora pienamente realistica e “viva”. Farinata, Cavalcante, Catone, San Bonaventura… sono tutti personaggi “veri”, colti nella loro essenza mondana che li caratterizzò in vita. Tuttavia, una volta considerati nell’ordine della Grazia e del Trionfo di Cristo, assumono un loro proprio valore assoluto e quindi un ruolo nel meccanismo dell’eternità.
Dante che, da uomo vivo, li interroga, non è che il testimone, l’anghelos delle vicende personali e storiche di quegli individui, il garante della loro umanità, che Dio ha permesso si potesse sublimare nel quadro dell’eternità. Dante, da uomo vivo, si avvicina alle anime come con un lumino, a renderle vive per l’ultima volta, a permettere loro di esprimere quell’accumulo non scaricabile di carattere psichico che in loro ancora si conserva dalla vita terrena. Infatti è la vita singola e arbitraria dell’uomo terreno il fondamento del Giudizio, e la sublimazione dell’anima nell’eternità del cosmo etico divino (sia infernale che paradisiaco) non significa perdita di individualità, bensì inscrizione di ciò che in vita è il vago elemento in mezzo al contingente, in un ordine che dopo la morte rende quell’elemento necessario, topico, figurale nella sua essenza. Le anime sono demoni, in quanto prodotti della dialettica tra individualità ed eternità, veri e propri “tramite” che si sforzano di accumulare e conservare la propria essenza individuale. Dante trova ombre nella realtà e le vivifica alla luce dell’Empireo, nell’ordine del Celeste. La realtà a sé stante non ha valore, ed essa può ottenerlo solo diventando ombra di una realizzazione eterna, mai astratta e mai concreta. È la luce di uno spirito, di un giudizio, di un’interpretazione a guidare questo processo: il senso del mondo, l’ordine delle cose, non emerge dal mutismo delle cose stesse, ma dalla consacrazione di un momento eterno, quello del Trionfo di Cristo, che vivifica il secolo e la Storia.
Giungiamo così ad una superba sintesi metafisica che, formalizzata, può risultare un ordinato sistema filosofico che permette di considerare le necessità e le possibilità dei rapporti logico-ontologici che si instaurano tra concetti apparentemente inconciliabili come quelli di tempo e a-temporalità, realtà ed eternità, umanità e divinità. Un sistema cosmologico come quello dantesco, retto dalla chiave di volta del Totalmente Altro, dell’Invisibile, dell’Infinitamente Superiore, Dio; tiene in incubazione le possibilità dell’eternità nell’episodicità concreta e materiale della realtà storica ed individuale, che non vengono rinnegate nemmeno in ultima istanza. Un filo che collega l’Alto e il Basso, un filo essenzialmente composto di ciò che Tertulliano e Agostino consideravano natura spirituale: la fede interiore e l’effetto sovrasensibile, la spinta estatica e il sacro indebolimento eucaristico. Il personale che dialoga con l’Assoluto, a partire dal quotidiano, in ordine all’eterno.
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