José Manuel Ballester interviene sulle perle della storia dell’arte, deprivandole dei loro protagonisti così da conferire una nuova e rinnovata attenzione alla poeticità del paesaggio.
Cosa succederebbe se i dipinti più celebri della storia dell’arte venissero spogliati dei loro protagonisti? Lo racconta l’artista spagnolo José Manuel Ballester con la sua serie pittorica Hidden Spaces (Ocultos Espacios) del 2012. Il progetto vuole andare oltre lo guardo superficiale di uno spettatore medio così abituato ad assorbire in maniera pervasiva e ripetitiva opere secolari come La zattera della medusa di Théodore Géricault, da non guardare mai oltre la patina superficiale. Ballester vuole invece concentrarsi su ciò che sta dietro, su uno sfondo costruito originariamente per i suoi protagonisti, ma poi dimenticato. Uno spazio vuoto, letteralmente, a cui bisogna dare una rinnovata attenzione, cercando di comprendere un’immagine notevolmente inflazionata da un nuovo punto di vista. Per rendere tutto questo possibile, l’artista avanza un’accurata operazione digitale, il cui scopo è quello di togliere un contenuto per aggiungere un significato. Il messaggio sotteso alla creazione pittorica sta nella ridefinizione attraverso la privazione del rapporto tra uomo e ambiente da lui abitato.
Ancora una volta il mondo artistico si sposa con la tecnologia digitale: quest’ultima non opera come trasformazione integrativa dell’ambiente, ma agisce come deprivazione di una sua componente. Ciò che guida José Manuel Ballester in questa direzione è l’amore per la solitudine, per il senso di inquietudine generato da un lavoro che appare al tempo stesso familiare e sconosciuto. L’osservatore prova una sorta di attrazione respingente nei confronti dell’oggetto che ha di fronte ed è questo fascino macabro, quasi nostalgico, che rende le opere di Ballester così originali e accattivanti. Ciò è dimostrato da come nel 2014 i suoi lavori fossero già virali sul web, con un’ampia partecipazione di commenti e condivisioni di spettatori incuriositi dal nuovo artista. La manipolazione di un’opera d’arte largamente conosciuta crea sempre un interesse vincente, ma in questo caso i soggetti così ammirati e apprezzati sono scomparsi. Sembra quasi che qualsiasi figura umana si sia volatilizzata avendo la possibilità di muoversi liberamente nel suo spazio, come nel caso dei celebri dipinti viventi di Hogwarts. C’è qualcosa di magico nella mancanza e Ballester sfrutta quest’aspetto, distruggendo la certezza dello spettatore di poter trovare quello che esattamente cercava nel luogo in cui è sempre stato.
Così La nascita di Venere di Sandro Botticelli diviene Nascimento de Venus (2012). L’artista mette in discussione l’antropocentrismo rinascimentale privando l’opera della sua divina protagonista. Ogni forma di autocelebrazione del soggetto scompare dietro la valorizzazione dello spazio, non più semplice contenitore di oggetti. È un modo per lasciare viaggiare liberamente l’immaginazione dell’osservatore, che si perde in luoghi a lui familiari, sentendoli per la prima volta diversi da come li ha sempre ammirati, ma non per questo meno cari. Questa volta Las Meninas di Diego Velazquez appare come uno studio privo del calore della folla che lo contraddistingueva, ma colmo delle impressioni, i ricordi e le memorie dei modelli che vi hanno posato e di tutti coloro che l’hanno vissuto emotivamente in seguito. Perché la mancanza si manifesta sì come uno spazio vuoto, ma non può mai essere vacuo e solitario un luogo che ha ancora il lascito mnemonico di coloro che l’hanno attraversato, lasciando un frammento della loro esistenza. Ed è su questo che lavora Ballester, un’esistenza passata, che può sopravvivere solamente attraverso il ricordo di tutti quelli che l’hanno amata.
L’artista vuole quindi rivalutare il paesaggio, elevarlo da semplice dettaglio di sfondo a soggetto in primo piano, dargli una connotazione poetica. All’interno del progetto del pittore, l’osservatore assume quindi un ruolo fondamentale, poiché deve lavorare di memoria, ma al tempo stesso attivare le proprie capacità inventive e creative. È quasi impossibile imprimere nella propria mente tutti i dettagli di un quadro, serve studiarlo minuziosamente più e più volte. Ecco, Ballester dà una rinnovata chance allo spettatore che ha sempre guardato distrattamente una grande opera, forse perché convinto di averne assorbito passivamente tutte le peculiarità. Questa volta non si può sfuggire, non c’è più qualcosa di più importante, di primaria attenzione da osservare, c’è solo ciò che è sempre stato abbandonato nel momento dell’atto creativo dell’artista, per poi non essere più riportato alla memoria se non per creare collegamenti tematici con i protagonisti.
Ballester ricrea stampe fotografiche delle stesse dimensioni delle opere reali, in modo da creare fino all’ultimo un ponte di collegamento tra memoria e innovazione. Lo spettatore vuole immergersi nel dipinto e perdercisi, così come affermava Willem De Kooning, senza calcolare il tempo di abbandono all’opera d’arte. È l’ansia ontologica di entrare nell’opera per fruirla il più a lungo possibile, quasi come se il mondo esterno fosse diventato privo di significato e inadeguato per viverci e lo spettatore cercasse un momento di evasione in una realtà parallela. Questa, spogliata del protagonismo dei suoi celebri soggetti, si priva della responsabilità della nomea e diventa un luogo ameno, tranquillo e meditativo.