New York Stories: il mito della Grande Mela in 22 racconti

New York: la Grande Mela, la città delle luci, la città che non dorme mai.

È un mito, la città, le stanze e le finestre, le strade che sputano vapore; per ognuno, per tutti, un mito diverso, testa d’idolo dagli occhi di semaforo che ammiccano verde tenero, rosso cinico. Questa isola che galleggia su acqua di fiume come un iceberg di brillanti, chiamatela New York […].

Ambientare un romanzo, un racconto a New York significa fare i conti con una personalità fortissima, invadente, prepotente, quella di una città che non sa farsi semplice sfondo, umile scenografia al servizio dei personaggi; New York è la protagonista, è una presenza costante, capricciosa.

In New York Stories, Paolo Cognetti (già autore di numerose opere dedicate alla metropoli statunitense e vincitore del Premio Strega 2017) raccoglie 22 racconti di altrettanti autori che accompagnano il lettore alla scoperta della città, degli appartamenti, delle periferie e dei treni che la attraversano incessantemente.

Dagli anni ruggenti di Fitzgerald e Dorothy Parker, fino alla Seconda depressione degli anni Settanta e all’11 Settembre, l’antologia di Cognetti attraversa Harlem fino a Central Park e al lussuoso Upper East Side e, seguendo la Broadway, scende verso Midtown e all’Empire State Building «solitario e inspiegabile come la Sfinge», in una corsa a perdifiato nei quartieri di Greenwich, East Village, Williamsburg, attraversando il ponte per arrivare finalmente a Brooklyn, una città nella città, secondo le parole di Wolfe: «Ci vuole una vita per conoscere davvero tutta Brooklyn. E anche allora non la conoscerai mai per davvero».

Ma conoscere New York significa vivere nei panni dei suoi abitanti, camminare con loro lungo la Quinta Avenue e seguirli su per le scale strette dei loro appartamenti di due stanze nel Bronx. Cittadini d’adozione che provengono da ogni parte del mondo, attaccati alle tradizioni di famiglia ma anche desiderosi di affrancarsene, irrimediabilmente soli in una città di 8 milioni di abitanti, in cui perdersi è tragicamente facile e dove a nessuno è risparmiata «l’amarezza del tradimento. […] Il prezzo da pagare quando un sogno così grande ti frega: la solitudine, l’alienazione, la pazzia, e certe volte la morte».

Ed ecco allora la storia di Leo Finkle, di Bernard Malamud; allievo rabbino, Leo contatta un sensale, secondo la tradizione della comunità ebraica, poiché «per sei anni s’era dedicato quasi interamente agli studi, e di conseguenza, naturalmente, gli era mancato il tempo per farsi delle compagnie e frequentare giovani donne».

O quella della bella bionda alta e ben piantata del racconto di Dorothy Parker, del «tipo che induce gli uomini, quando pronunciano la parola ‘bionda’ a schioccar la lingua e ad alzar la testa con aria furbesca», finita sola e alcolizzata a tentare il suicidio coi sonniferi.

Secondo Cognetti,

Nessuno al mondo è così solo come chi è solo a New York. Nessuna altra città è altrettanto piena di pazzi. […] A chi non diventa pazzo e non muore a volte succede un miracolo.

Un miracolo che salva dalla frenesia, dalla morte, di amicizia e amore; in una città così grande e piena di persone, paradossalmente, il vero miracolo è incontrare qualcuno che salvi dalla solitudine. Perché i newyorkesi sono sempre e comunque soli e una volta che hanno assorbito l’essenza della città dentro di sé, non possono più farne a meno, sarà parte di loro per sempre. Se anche decideranno di andarsene, per salvarsi, per tentare fortuna altrove, saranno sempre parte della città:

Diventiamo newyorkesi il giorno in cui ci rendiamo conto che senza di noi New York continuerà a esistere. […] I vecchi palazzi resistono perché noi li abbiamo visti, siamo entrati e usciti dalle loro lunghe ombre, per un certo periodo siamo stati così fortunati da frequentarli. Fanno parte della città che portiamo dentro.

E se per Whitehead, una volta che si è newyorkesi lo si è per sempre, per Mario Maffi non si conosce davvero la città finché non la si è vissuta, finché non la si abita. Ed ecco allora un catalogo di appartamenti più o meno grandi, ognuno particolare a modo suo e a modo suo fantastico: da quello con un’enorme vetrata affacciata a ovest che la sera regala «un’unica rutilante fantasmagoria di rossi, gialli e violetti», a quello strutturato come un unico lungo corridoio dove «bagno, angolo-cottura, ingresso, stanza da letto erano tutti in fila». E ancora il tipico railroad flat,

una stanza sul davanti con un divano semisfondato, una stufa a legna in ghisa e due finestre su Tompkins Square […]; in mezzo un’ampia sala senza finestre con un parquet malandato […] dalle pareti a mattoni nudi, una porta sul pianerottolo apribile esclusivamente dall’interno e un bagno microscopico di cui funzionava solo il lavandino […] e infine una stanzetta sul retro con un letto a due piazze, alcuni scaffali imbarcati, un tavolino traballante, due sedie, due finestre sul cortile da cui si levavano odori e aromi della cucina dell’Odessa.

New York è insomma una città in cui le voci delle comunità ebraiche, italoamericane, portoricane, afroamericane (e si potrebbe continuare all’infinito), dei singoli minuscoli cittadini che si affannano nelle strade, le voci dei grattacieli di Midtown, delle case in mattoni di Brooklyn si uniscono in una polifonia unica e irripetibile, dando vita, secondo le parole di Truman Capote, a

un luogo dove nascondersi, dove perdersi o ritrovarsi, dove fare un sogno in cui si abbia la prova che forse, dopo tutto, non si è un brutto anatroccolo, ma si è meravigliosi, degni d’amore.

 


FONTI

P. Cognetti, New York Stories, Einudi, 2015


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