Era il 1907 e Pablo Picasso (1881-1973) dava il via alla storia dell’arte contemporanea con una grande tela che i suoi contemporanei disprezzavano. Les demoiselles d’Avignon è stata realizzata tra il giugno e il luglio del 1907 dall’artista spagnolo, allora residente nella fervente Parigi.
I colleghi di Montmartre avevano visto l’opera prima che Picasso la nascondesse, e l’avevano definita «il bordello filosofico», che in parte identificava il soggetto, ma dall’altra era un chiaro insulto. L’opera è a tutti gli effetti il ritratto di un bordello di via d’Avignon, a Barcellona, visto dall’autore prima del suo trasferimento a Parigi. Cinque prostitute nude o semi-coperte da drappi fissano lo spettatore senza timore, ma i loro corpi sono innaturali, sconvolgenti.
In primo piano l’artista inserisce una natura morta di frutta, strumento che trasporta immediatamente lo spettatore all’interno della tela. Lo spazio è del tutto innaturale. Manca una prospettiva realistica, anzi manca qualsiasi tipo di indicazione di profondità. I soggetti e le forme sono spigolosi, pungenti, tesi, e lo spazio risulta compressoai lati, dando un senso di lieve vertigine. Convivono diversi punti di vista, i volti stessi delle donne sono scomposti e ritratti da più angolazioni, alcune hanno il naso di profilo ma il resto del corpo visto frontalmente.
Il colore non sottostà più alle regole delle luci e delle ombre naturali, ma ne è totalmente slegato, a volte è piatto – come nelle due figure centrali – altrimenti i passaggi di luce sono netti e privi di sfumature. I canoni della tradizione pittorica sono stati violati, dal primo all’ultimo: Picasso ha inventato il cubismo, la prima delle avanguardie pittoriche che rivoluzioneranno l’arte moderna e sconvolgeranno il Novecento.
Inizialmente l’artista intendeva inserire anche due abitué tra le donne: un marinaio e uno studente di medicina, come testimoniano alcuni dei numerosi schizzi preparatori (oltre ottocento), realizzati nel corso di soli sei mesi.
L’elaborazione dell’opera è dunque densa e faticosa: parte da Harem (1906), dove Picasso lavora sul tema dei nudi in un interno, con tanto di natura morta in primo piano, seguendo il Bagno turco di Jean-Auguste-Dominique Ingres.
Per quanto riguarda i modelli, Picasso sembra prenderne da ogni angolo della storia dell’arte. Prima di tutto occorre fare il nome di Paul Cezanne, il grande anticipatore del cubismo. Le sue forme geometriche e il suo colore scomposto in campiture quasi a tinta unita sono stati un’enorme fonte ispiratrice per Picasso, che le riprende, così come la sua strutturazione dello spazio. È anche da notare come le figure delle demoiselles picassiane guardino a quelle delle grandi Bagnanti dell’artista francese, che si inseriscono all’interno dello spazio in modo simile.
Per le pose delle due protagoniste al centro, Picasso guarda a modelli classici e ad altri contemporanei: lo Schiavo morente di Michelangelo e, per la donna con le braccia alzate sopra la testa, l’iconografia della Afrodite anadiomene, di cui si ricordano gli esempi offerti da Ingres e da Pierre Puvis des Chavannes, che l’artista conosceva.
La compressione dello spazio e i corpi longilinei incastonati in esso, sono influenzati dalla Visione di san Giovanni di El Greco.
Per le due figure a destra, Picasso si lascia affascinare dalle maschere africane e dall’arte primitiva, che ha probabilmente potuto studiare al Museo etnografico del Trocadero di Parigi. Decide di sostituire completamente le maschere ai volti delle donne: è attratto dalle loro forme inusuali, dagli occhi storti e dai diversi colori e rifiniture.
All’artista interessa rompere con il passato, trovare un linguaggio nuovo rispetto a quello classico visto e rivisto. Il modello africano è allora qualcosa da poter aggiungere nella tela per ottenere risultati mai visti. Quando l’opera viene esposta nel suo studio e amici e colleghi la vedono, tutti ne sono inorriditi, o peggio, ne ridono. Da Félix Fénéon, il critico visionario che aveva difeso Georges Seurat, a Henri Matisse, tutti la criticano aspramente e ritengono che Picasso abbia perso il senno o, peggio, l’occhio da artista. L’unico che non sembra irritato o divertito da quei corpi spezzati e da quella visione stravolgente è Georges Braque, che dopo un primo momento di spaesamento, ammira l’opera e il suo stile.
Nonostante questo, probabilmente abbattuto dalle critiche di amici e critici e insoddisfatto del proprio lavoro, Picasso abbandona l’opera, che non completerà mai: secondo l’autore stesso, Les demoiselles è infatti un’opera non finita. Picasso decide di tenerla ben nascosta nel proprio studio, per nove anni. La storia la porta poi nel 1937 in una galleria di New York, dove Alfred Barr ne rimane colpito e la acquista per il museo di cui è il direttore: il MoMA di New York, da dove non si è più spostata. Con una sola tela, Picasso ha dato il via a una nuova arte, aperta a stimoli di provenienze diverse capaci di convivere nella stessa visione. È proprio questa commistione di ispirazioni, forme e immagini che contribuiscono a rendere grande Les demoiselles d’Avignon: nessuno si era mai azzardato a unire le maschere africane con le forme sinuose di Ingres, il tema del nudo femminile tanto caro alla tradizione accademica con lo sguardo di sfida dell’Olympia di Manet, il tutto deformando forme, spazio e corpi senza timore. Era il 1907 e l’arte moderna aveva finalmente un volto.
Queste e altre informazioni sono contenute in Les demoiselles D’Avignon, di William Rubin, Helene Seckel e Judith Cousins, pubblicato nel 1994, a oggi l’analisi più completa del capolavoro di Pablo Picasso.