Ci troviamo nell’Antica Grecia nel 750 a.C. circa. Un uomo, un poeta, cieco dalla nascita, scrisse l’incipit più famoso della storia della letteratura, forse solo dopo quello della Bibbia: “In principio Dio creò il cielo e la terra” e quello della Divina Commedia di Dante: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”.
Cantami, o diva, del Pelìde Achille
l’ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei
Questa è la versione del proemio dell’Iliade tradotta da Vincenzo Monti, tra le più quotate nelle antologie, benché ne esistano di versioni più fedeli all’originale. Tra gli studiosi c’è chi dice che quest’uomo, Omero, non sia mai esistito, un po’ come Shakespeare. Abbandoniamo per un attimo la cosiddetta questione omerica e facciamo finta che il nostro poeta sia realmente esistito. Forse non tutti ricordano come abbia deciso di dare inizio alla guerra che fa da cardine all’opera. Proviamo a ritornare all’età in cui tra le materie c’era Epica, nome affascinante di per sé. Durante le nozze di Peleo e Teti sul monte Olimpo, la dea della discordia Eris lanciò una mela d’oro, la celebre mela della discordia, con incisa la frase “alla più bella”. Ne derivò un’aspra contesa tra Afrodite, Era e Atena, per accaparrarsi quel titolo. Zeus lasciò a Paride il compito di giudicare chi fosse la più meritevole, ed egli scelse Afrodite, la quale gli aveva promesso in cambio l’amore di Elena. Afrodite dunque, ancor prima di Elena, contribuì allo scoppio della guerra di Troia. Nel terzo libro dell’Iliade, Afrodite salvò Paride dalla lancia di Menelao e fu molto protettiva nei confronti del figlio Enea. Infatti da Omero sappiamo che Afrodite è figlia di Zeus e di Didone, difende i Troiani ed è madre dell’eroe Enea, generato dall’unione con l’eroe troiano Anchise. La sua origine non guerriera è evidenziata dal fatto che non solo viene ferita dall’eroe greco Diomede ma anche che, a seguito di ciò Zeus, re degli Dèi e suo padre, la rimprovera di occuparsi di guerra anziché delle “amabili cose d’amore” che sarebbero di sua competenza.
L’importanza di Afrodite è quindi chiara, tanto che a distanza di quasi 3000 anni il cantautore siciliano Dimartino ha deciso di chiamare così il suo quarto album, edito a gennaio di quest’anno per 42 Records e Picicca dischi. Dieci brani come racconti leggeri e quotidiani, in cui la dea dell’amore fa da padrona dei temi pop, per comporre un poema fresco e mitico. L’album ricorda una raccolta di stili, un’antologia del cantautorato italiano che parte dalle linee battistiane di Io, Tu, Noi, Tutti che ritroviamo in Giorni Buoni, brano che apre il disco e ne rappresenta il manifesto poetico, “io scrivo canzoni leggere, perché sono giorni buoni”, si continua passando per Dalla in Due personaggi, “siamo due personaggi in cerca d’amore, che vivono il dramma di una vita normale”. Cuoreintero segue la scia del cantautore Giorgio Poi, il brano Feste comandate rimanda al conterraneo Colapesce e Pesce d’aprile ai Thegiornalisti. L’apice arriva con Ci diamo un bacio, sicuramente la canzone più potente di tutto l’album, che riesce a evocare nitidamente immaginari mitici, “c’è una ragazza che ha i capelli colore del cielo, gli occhi color della guerra”, non per niente in questo brano compare la dea che ha dato il nome al disco. In Liberaci dal male si ritorna ai Thegiornalisti. In La luna e il bingo si balla con atmosfere tutte spiaggia, sole e sale del miglior Biagio Antonacci. Nel finale, Daniela balla la samba, ritorna prepotentemente Lucio Dalla a chiudere in bellezza.
La nota fortemente negativa del disco è che spesso lo stile cantato e la scelta delle parole dei testi ricordano i Thegiornalisti, quasi ad ammiccare a un genere molto in voga che risulta così scimmiottato. Forse in questo disco Dimartino si è fatto abbagliare dalle inclinazioni nel panorama musicale italiano. La forza dell’hybris, ancora una volta, ha fatto avvicinare troppo il cantautore al sole e le ali di cera si sono sciolte.
Afrodite rappresenta la potenza irresistibile dell’amore e l’impulso alla sessualità che stanno alla radice della vita stessa. In ogni creatura vivente la dea, se vuole, sa accendere il desiderio, che procede come un incendio, travolgendo ogni regola […]. Al di là delle regole, al di là della giustizia, una forza possente travolge ogni creatura e la spinge a osare ciò che non avrebbe mai osato se fosse stata in senno. Poiché quando ama, ognuno sembra perdere la ragione, e si lascia trascinare dalla passione, quella di Afrodite è considerata μανία, una follia appunto, ma di tipo particolare: “i più grandi doni (scrive Platone, Fedro 244 a) vengono agli uomini da parte degli Dèi attraverso la follia, quella che viene data per grazia divina”.
Giulio Guidorizzi, Il mito greco vol. 1 – Gli dèi, Mondadori, 2009