Aristotele, nel libro A della Metafisica, distingue tra quelle disposizioni umane orientate al vero, a ciò che di serio può essere detto intorno all’apparenza, e quelle disposizioni che, nonostante concorrano allo sviluppo di una conoscenza rigorosa, non riescono a raggiungere indipendentemente la verità. La distinzione dello Stagirita comprende nel primo insieme le attività legate all’episteme e alla techne, nel secondo le attività legate all’empeiria. Aristotele ci insegna che la ricerca della verità è ricerca delle cause e dei principi, ovvero ciò in virtù del quale il mondo è e può essere. Insomma, ciò che si limita a dire “questo è così” non riesce a raggiungere la verità, che è colta piuttosto dall’enunciato “questa è la causa di questo”. È proprio questo salto, questo oltrepassamento del superficialmente-essere che l’empeiria non riesce a fare. La techne e l’episteme, invece, riescono a dire le proprie verità: come esposto nel libro VI dell’Etica Nicomachea, l’episteme è ragionata alla verità in ordine alla necessità, a ciò che è “così” e non potrebbe essere altrimenti (in termini più recenti, a ciò che è possibile in ogni mondo possibile); la techne è ragionata alla verità in ordine al contingente, a ciò che “può e può non essere così”.
L’aiuto di Aristotele ci è utile a capire che la “tecnica”, quel mostro linguistico di cui il linguaggio culturale dell’ultimo paio di secoli si è servito in ogni modo, altro non è se non un vero e proprio modo di sapere in che modo qualcosa può venire a far parte di questo mondo. Infatti la tecnica ci aiuta a “produrre” oggetti, ma anche (come dopo risulterà più chiaro) modelli e teorie sul mondo materiale, e tutti questi prodotti sono adeguati, efficaci, solo se quella precisa tecnica che è stata adottata è stata in grado di studiare le leggi della natura, le clausole della scienza, e ritagliare uno spazio per un prodotto pratico/teorico nei domini di ciò che dalla natura è legittimato. Si apre il libro della natura, si legge ciò di cui c’è bisogno, e si vede se tra quello che si è letto c’è qualcosa che m’impedisca di produrre ciò che voglio. Se non trovo impedimenti, e sono in grado di produrre ciò che voglio, allora il gioco è fatto: la “tecnica” è stata in grado di portare un nuovo artificio all’interno del mondo.
Non è chiaro, tuttavia, in che maniera e in che percentuale il modo moderno di “pensare” sia legato o meno alla tecnica. Sia in ambito scientifico che meta-scientifico si sentono arrivare accuse al modo contemporaneo di fare scienza non certo per le chiare e irrefutabili conquiste che essa ha conseguito, ma per il metodo da essa adottato in ordine ad una pansophia, ossia all’ambizione ad un pensiero sintetico e complesso che renda conto di un’intera visione del mondo, di una Weltanschauung che possa dirsi esauriente nei confronti di quella realtà che è l’oggetto logico generale di ogni “-logìa”. Potremmo parlare in modo azzardatamente dogmatico di uno “spirito” della scienza di ogni epoca storia, che rende ogni volta conto di un sapere “totale” legato alle conquiste dei molteplici campi del sapere in quello specifico range temporale. Come ogni ipostasi di “spiriti”, si tratta di qualcosa di astratto e ampiamente non rigoroso, ma è ciò che ci permette di parlare di uno spirito “illuministico”, di uno “romantico”, di uno “rinascimentale”… E allora viene immediatamente da chiedersi, alla luce dell’idealizzazione di una pansophia, che nome e conformazione ottenga lo spirito scientifico generale del nostro tempo. Secondo il celebre biologo E.O. Wilson non saranno (solo) le “tecniche scientifiche” del nostro tempo a deciderlo. Infatti, nonostante l’avanguardia tecnico-teorica e tecnico-sperimentale a cui assistiamo in questo secolo, si è incappati nel rischio della settorializzazione del sapere, che è un oggetto controverso: infatti, pur essendo necessario che, in virtù di un stato di progresso come quello attuale, le skills di uno studioso siano quanto più esaustive e semanticamente delimitate; questa rigida classificazione porta ad un disinteresse generalizzato per le discipline che sono fuori dal singolo campo d’interesse del tecnico. Sono evidenti gli scompensi: difficoltà interdisciplinari, multidisciplinari, transdisciplinari, crosdisciplinari… Per questo, continua Wilson, per poter dar vita ad un “terzo illuminismo” – quel momento dello spirito storico della scienza in cui sapere scientifico e sapere umanistico convergano nell’analisi razionale di questioni ultime precedentemente inaccessibili – c’è bisogno di ovviare alle difficoltà comunicative tra i vari ambiti del sapere. Il “primo illuminismo” di cui parla Wilson è proprio quello dell’Atene di Aristotele, in cui si diede vita a quel modo aurorale ma sempiterno di porre le domande e rispondere alle “cause finali” del mondo. A prescindere dalle visioni specifiche dei grandi ateniesi del periodo, valeva nelle loro filosofie un principio di ricerca dell’ousia, dell’essenza, che non si limitasse quindi a rimanere nella banaousia, nella banalità. Nel “secondo illuminismo” invece – quello che noi conosciamo come “Illuminismo” in senso proprio – si è assistito alla nascita delle basi teoriche e meta-teoriche della scienza del nostro tempo. La convergenza tra i principi regolatori di questi movimenti storici è un compito pienamente maturato nella nostra epoca.