Washington: la mostra Snake Eyesdell’artista tedesca Charline von Heyl, esposta al museo Hirshhorn del circuito Smithsonian, è stata chiusa con l’inizio del nuovo anno e non è stato più possibile visitarla.
Shutdown Usa
Il museo è solo una delle molteplici istituzioni artistiche che sono state obbligate a chiudere a causa del cosiddetto Shutdown Usa: una procedura che scatta negli Stati Uniti quando il Congresso non riesce ad approvare la legge di bilancio federale. La sua entrata in vigore è automatica, comporta il blocco di tutte le attività amministrative.
Così, dallo scorso 21 dicembre, un quarto delle attività federali negli Usa è rimasto chiuso per mancanza di fondi, lasciando i propri dipendenti senza stipendio. Casus belli? La richiesta da parte di Donald Trump di un finanziamento da 5,7 miliardi di dollari per la costruzione del contestato muro al confine con il Messico. Al Congresso non è stato trovato un accordo tra Repubblicani e Democratici, e così è partito lo shutdown, proprio poco dopo l’apertura della mostra di von Heyl. Una procedura durata fino al 25 gennaio 2019, giorno in cui il presidente americano Donald Trump ha spiegato che le attività amministrative torneranno aperte per tre settimane, durante le quali si proverà a trovare un compromesso più duraturo.
Se non otterremo un buon accordo col Congresso, il governo federale chiuderà di nuovo il 15 febbraio, oppure userò i poteri di cui dispongo per gestire questa emergenza.
Di conseguenza, il circuito Smithsonian ha previsto la sua riapertura per martedì 29 gennaio. Troppo tardi per Snake Eyes, in programma solo fino al 27 gennaio.
Per questo motivo l’artista tedesca ha trovato un originale rimedio, decidendo di caricare video e immagini di Snake Eyes su uno spazio digitale, così da permettere a chiunque di visitare virtualmente la mostra.
L’artista
Charline von Heyl (Mainz, 1960) ha studiato alla Hochschule für bildende Künste di Amburgo e alla Kunstakademie di Düsseldorf. Ha partecipato poi alla scena artistica di Colonia degli anni Ottanta prima di trasferirsi a New York nel 1995. I suoi lavori di fama internazionale sono presenti in collezioni di tutto il mondo, tra cui il Museum of Contemporary Art di Los Angeles, il Museum of Modern Art di New York e il Museum of Modern Art di San Francisco. E ancora: il Tate di Londra, il Musée d’Art Moderne di Parigi, il Kunstmuseum di Bonn. È stata finalista per il Premio Hugo Boss nel 2014 e ha ottenuto riconoscimenti dal Wexner Center for the Arts e dalla Chinati Foundation.
Definita dallo stesso Smithsonian come una delle artiste più fantasiose del momento, la von Heyl ha ottenuto svariati riconoscimenti internazionali proprio per il suo particolare modo di elaborare ed esplorare le nuove possibilità della pittura contemporanea. Le sue opere sono cerebrali, ma anche profondamente viscerali. Traggono ispirazione da una vasta e sorprendente serie di fonti – tra cui letteratura, cultura pop, metafisica e storia personale – dalle quali la von Heyl crea dipinti a prima vista familiari, ma impossibili da classificare, definiti dalla stessa artista a new image that stands for itself as fact.
Lo spazio digitale non come semplice sostituzione
Negli studi di New York e Marfa, in Texas, von Heyl mette in atto una pratica rigorosa, che esige che ogni quadro si sviluppi attraverso l’atto stesso di dipingere. I risultati rappresentati dalle sue opere invitano lo spettatore a esplorare un linguaggio visivo davvero unico.
Diventa quindi molto interessante confrontare i veri dipinti con le immagini digitali dei lavori che l’artista ha deciso di condividere. Nel secondo caso, molte tecniche artistiche utilizzate dalla pittrice si perdono e le fotografie non rendono giustizia alla grandezza e alla maestosità delle sue opere. Eppure, le immagini online dei dipinti hanno ormai preso posto tra le opere dell’artista, non più come semplici sostituzioni di quelle reali, ma a tutti gli effetti parallele a quelle situate fisicamente nella galleria, iconiche.
Come commenta il giornalista Jason Farago in un articolo sul «New York Times», questo non significa affatto che le nuove tecnologie possano offrire un’esperienza alternativa alla visione reale di questi dipinti. Si parla piuttosto di un’esperienza integrativa. Esperienza di artisti che non hanno uno sguardo nostalgico sulla pittura dell’epoca predigitale, consapevoli che non tornerà. Artisti che usano la tecnologia come strumento di diffusione, piuttosto che come nemico da cui stare alla larga.
C’è un lato positivo, forse, perfino in una crisi politica.