Il mito di Antigone: uno specchio per la società moderna

L’Antigone di Sofocle fu messa in scena per la prima volta ad Atene, in occasione delle grandi Dionisie, nel 442 a.C. Pare quasi assurdo riproporla a quasi duemilacinquecento anni di distanza; sembra paradossale rievocare un mito che appartiene ad un mondo così lontano dal nostro, quello della Grecia Antica, nell’epoca della globalizzazione e della digitalizzazione. Eppure sta proprio qui la grandezza del mito: nella sua immensa capacità rappresentativa. Così una tragedia classica pare adattarsi alla perfezione alla società moderna, mettendone in luce i principali conflitti.

Proprio la conflittualità funge infatti da motore dell’opera, che prende avvio dalla vicenda dei Sette contro Tebe. La città, governata da Creonte, era stata infatti teatro di una guerra fratricida tra i due nipoti del sovrano: Eteocle, che combatteva in difesa della polis, e Polinice, che ambiva invece a conquistarla. I due si affrontarono, si uccisero reciprocamente. Ed era qui che l’azione subiva la svolta decisiva: nonostante il divieto reale di Creonte di seppellire il traditore Polinice, la sorella Antigone si ribellò e decise di dare una segna sepoltura ad entrambi i fratelli. Contravvenne dunque esplicitamente alla legge della città, in risposta ad una giustizia superiore, quella degli dei, all’imperativo morale basato anche sul diritto di sangue.

Sono molte le opposizioni che emergono dalle pagine dell’Antigone, contrasti quanto mai attuali e che sono stati nel tempo più volte ripresi da autori e filosofi postumi. Innanzitutto, come nota Hegel nella sua Fenomenologia dello Spirito, Sofocle affronta lo scontro tra lo Stato e la famiglia. Sarebbe questa dunque l’origine dell’attrito tra i due protagonisti, la giovane Antigone ed il sovrano Creonte, entrambi costretti a subire la propria tragedia personale.

Ma i conflitti trattati dal mito non si esauriscono qui. Un ruolo fondamentale è stato riservato, anche ad opera delle più moderne letture femministe, allo scontro tra la donna, simbolo della dimensione privata, e l’uomo, detentore dell’autorità politica. Afferma dunque lo stesso Creonte: “Non prenderò ordini da una donna”. Antigone, decidendo di abbandonare l’ambito privato della casa – in cui le donne nell’antica Grecia erano abitualmente relegate – si comporta “come” un uomo. Anzi, decide addirittura di sfidare apertamente il potere politico, all’epoca prerogativa esclusiva dell’uomo. Agli antipodi troviamo la sorella Ismene, che rifiuta di aiutare la protagonista dell’intento, ed è addirittura turbata dall’audacia dell’eroina. E’ dunque quest’ultima a ricoprire il tradizionale ruolo femminile nella società greca: subire passivamente le decisioni imposte dall’autorità maschile.

Fondamentale per l’opera è inoltre il conflitto generazionale, tematica scottante anche ai giorni nostri. Tale contrasto si concretizza soprattutto nell’opposizione tra Emone e suo padre Creonte. Il giovane tenta infatti di far ragionare il padre una volta che quest’ultimo decreta la condanna di Antigone, ma il sovrano è irremovibile: “Proprio questo, o figlio, è il principio che devi tener ben saldo dentro di te: assecondare in tutto la volontà paterna”. La replica del giovane è secca e decisa: “Se io sono giovane, non dovresti badare all’età quanto al comportamento”. Eppure a nulla valgono le suppliche del figlio: niente riesce a distogliere Creonte dal suo proposito di punire Antigone per essere venuta meno alla legge della polis. Il giovane si fa dunque portatore di valori nuovi, che non scalfiscono però la “vecchia generazioni” e i suoi pregiudizi, qui rappresentati da Creonte.

Ecco dunque che si delinea il principale contrasto della tragedia, una tematica ancora scottante per l’etica contemporanea: quello tra la legge umana e la giustizia divina, naturale, morale. Creonte si comporta infatti come un buon cittadino, che risponde ad una razionalità pubblica ancora attuale: antepone la legge dello Stato ai vincoli di sangue. Diversamente si comporta Antigone, convinta che esista una giustizia naturale superiore a quella umana, simboleggiata in questo caso da leggi divine. Entrambi possono, secondo l’ottica della società moderna, avere ragione. Così come potrebbero avere torto. Non è un caso che tutte e due queste figure vadano incontro, a fine opera, alla loro tragedia personale. Entrambi ne escono sconfitti.

Sofocle mette in scena l’opera in un’Atene estremamente moderna, poliedrica, in cui si affacciavano correnti di pensiero diverse. Una situazione, dunque, molto simile a quello della società attuale, in cui sempre maggior peso aveva l’umanesimo di Protagora. L’uomo è misura di tutte le cose, questo era il motto. Parole che paiono applicarsi alla perfezione anche alla società contemporanea, caratterizzata da individualismo e spettacolarizzazione di sé. In tale contesto, con la figura di Antigone, Sofocle pare volerci ricordare che esiste qualcosa di più grande dell’uomo, sia esso un dio, il destino o il fato. L’uomo non può sempre dominare, deve a volte accettare di piegarsi ed accettare ciò che la sorte gli riserva. Ma questa lezione, allora come oggi, non sempre è facile da apprendere.

L’errore comune ad Antigone e Creonte è infatti il loro integralismo, l’incapacità di tentare di capire l’altro, come ricorda il Coro all’eroina: “Ti ha perduto il tuo carattere inflessibile”. Nel caso di Creonte poi, il rimanere saldo sulle sue posizioni nonostante le preghiere del figlio Emone e dell’indovino Tiresia, si concretizza in una vera e propria svolta verso la tirannia.

Proprio su quest’aspetto si è concentrata la critica dell’Antigone degli anni del secondo dopoguerra, memore dell’orrore dei fascismi. Sono stati in molti coloro che hanno riconosciuto nel Creonte dalle mire assolutiste una sorte di antecedente dei moderni regimi totalitari (nazismo e fascismo). Aspetto comune a questi sistemi è infatti il tentativo di controllare la vita dei cittadini anche nell’ambito del privato, reprimendo con durezza ogni forma di dissenso. Ne è un esempio l’Antigone di B. Brecht, scrittore e drammaturgo tedesco, edita nel 1948. Brecht utilizza il mito sofocleo per mettere in scena la dittatura nazista, identificando Creonte con Hitler. “…Il corpo di Polinice” annuncia l’eroina di Brecht: “in città s’è proclamato che non sia coperto da un sepolcro, e che non venga compianto. Deve restar senza pianto né tomba, dolce pasto agli uccelli. E colui che trasgredisce sarà lapidato.

Per concludere ricordando ancora una volta l’estrema modernità del mito greco si può citare l’ultima lettera che un condannato a morte della Resistenza Danese, Christian Ulrich Hansen, scrisse ai suoi compagni alla vigilia della sua esecuzione. Anche qui emerge infatti il tema del corpo lasciato insepolto per ordine di un governo – in questo caso quello nazista: “Una mattina si sentiranno degli spari, l’erba stillerà brina. Christian Hansen non è più. Non saranno eretti mausolei, non sarà posata pietra o croce”. Ci si pone dunque di fronte lo stesso interrogativo che aveva afflitto Antigone più di duemila quattrocento sessanta anni fa: cosa fare? Reagire al potere legale in nome di una legge superiore, o rispettare l’ordine costituito? Questioni che ancora oggi attualissime, e che dimostrano l’immortalità dei grandi quesiti che affiorarono nella Grecia antica, a partire da un semplice mito.

 

Fonti:

Malvezzi, G. Pirelli, Lettere dei condannati a morte della resistenza europea, Einaudi, 1954

Citti, C. Casali, M. Gubellini, A. Pennesi, Storia e autori della letteratura greca. Sofocle, Antigone, Zanichelli, 2009

Bonazzi, Atene, la città inquieta, Einaudi, 2017

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.