La scrittura automatica è un procedimento che ha caratterizzato la prima produzione surrealista, inventato da André Breton e praticato da lui e i suoi compagni lungo tutti gli anni Venti del Novecento e non solo. Parlare oggi di scrittura automatica in letteratura, dopo cento anni dalla sua invenzione – nel 1919 Breton e Soupault scrivevano Les champs magnétiques – e poco meno dal suo (presunto) fallimento, ha senso se si coglie profondamente l’idea che vi è alla base, sotto la polvere di speculazioni soprannaturali e medianiche che si è posata fin da subito e nel corso del tempo.
Benché sia nota a tutti la profonda fascinazione di coloro che presero parte al movimento surrealista verso tutto ciò che concerne l’immaginazione, l’onirismo, la tensione verso una realtà “altra”, nonché i numerosi tentativi di approccio a questa realtà attraverso frequenti sedute spiritiche e sollecitazioni di vario genere, è doveroso trascinare per un attimo la pratica dell’automatismo fuori da questo marasma e osservarla sotto una lente di ingrandimento che ne metta in luce la sua natura profondamente umana, affatto “altra”.
L’automatismo psichico è un procedimento del pensiero sciolto dalle briglie della ragione, dell’etica, del dovere, delle convenzioni e delle convinzioni. Scrivere automaticamente vuol dire lasciar fluire autonomamente il linguaggio senza incanalarlo, lasciare che si riversi sulla carta – anche se, oggi, parlare di carta potrebbe suonare anacronistico ma necessario – senza giudicare le parole che trascina con sé, senza porre un freno alla libera produzione mentale.
I surrealisti scelgono di usare la scrittura automatica nel secondo decennio del Novecento, in un momento in cui tutto sembrava già essere stato scritto, all’indomani di un secolo che aveva visto imporsi più che mai la figura del poeta “vate”, che si fa portatore di verità assoluta e che indossa un’aureola sul capo. Molta della letteratura che è stata prodotta nello scorso secolo deve molto del suo essere alle avanguardie letterarie del primo Novecento, anche quelle più radicali come il surrealismo, che hanno demolito la tradizione per ricostruire partendo dalle sue stesse macerie.
Ne Il messaggio automatico, testo pubblicato per la prima volta nel 1933 sulla rivista Minotaure, Breton afferma non a torto che quella della scrittura automatica è la storia di una sfortuna continua. Del resto, qualsiasi scrittore o aspirante tale, faccia a faccia con la sua creazione in divenire, non può fare a meno di scandagliarla, manovrarla, giudicarla; imporre un controllo che direzioni lo scritto verso quello che vorrebbe fosse il risultato, un risultato di qualità.
Non stupisce che la scrittura automatica abbia avuto vita breve o relativamente scarsa diffusione. Si pensi alla difficoltà di isolare se stessi da qualsiasi pensiero e incombenza esterna, svuotare la mente da ogni preoccupazione a favore di un flusso continuo e naturale di puro linguaggio. I surrealisti, infatti, erano persuasi che alla radice del pensiero umano ci fosse una comune sorgente inesauribile di linguaggio puro, comune a tutti gli uomini e le donne, da cui poter attingere all’infinito per la creazione letteraria. Vi è una profonda democraticità in questo processo e la convinzione che chiunque possa scrivere se in grado di mettersi nella condizione di attingere a questa fonte. Difficilissimo da fare e da accettare, secondo una prospettiva che pone l’autore nella situazione di escludere totalmente il suo ego e il lettore in quella di rinunciare, spesso, all’idea di trovarsi di fronte un testo tradizionalmente articolato, che non ti faccia chiedere alla fine “e allora?”.
Quella svolta dai surrealisti è un’indagine sulla sede primaria del linguaggio e sulle modalità di attingervi; una volta rintracciate, hanno deciso che proseguire con questa tecnica non sarebbe stato necessario.
«L’essenziale, per il surrealismo, è stato convincersi di aver messo la mano sulla “materia prima” (in senso alchimistico) del linguaggio: da quel momento si sapeva dove prenderla, e va da sé che non importava più riprodurla a sazietà: questo per chi si stupisce che tra noi la pratica della scrittura automatica sia stata lasciata tanto presto.»
Eppure, la scrittura automatica non è mai stata abbandonata del tutto. Molti sono i giochi surrealisti inventati e praticati dai seguaci di Breton negli anni Settanta: per citarne un paio, il gioco dei contrari prevedeva che il primo giocatore scrivesse una frase su un foglio e che questa dovesse essere negata dal secondo giocatore; il successivo, senza poter leggere la frase di partenza, doveva negare a sua volta quella precedente, e così via. Un altro gioco, invece, consisteva in una scrittura automatica simultanea: ogni giocatore in sala doveva dedicarsi al proprio scritto finché qualcuno, a turno, non interrompeva il flusso di coscienza con una parola o una frase che tutti dovevano inserire nel proprio elaborato, sempre mantenendo la concentrazione nel non esercitare un controllo. Si tratta di giochi apparentemente semplici ma in realtà caratterizzati da una profonda dialettica, poiché consentono di riflettere sulle possibilità dell’oggetto-testo e sull’influenza del soggetto scrivente su di esso.
Oggi siamo ben lontani dall’eleggere uno scrittore vate, in un contesto che ci vede tutti scrittori e produttori di contenuti a cui affidiamo il compito di descriverci o quantomeno di presentarci come vorremmo al pubblico indefinito di lettori. È una forma di democrazia letteraria ben lontana da quella proposta dai surrealisti, perché autocelebrativa e rivolta prettamente al soggetto. Leggere un testo automatico oggi, o cimentarsi nel produrlo, è un’occasione inedita per ricercare quella matrice primaria del linguaggio e ammirare la ricchezza che la parola può offire al di fuori da ogni declinazione soggettivista.
A. Breton, Point du Jour, Gallimard, Paris, 1934.
A. Breton, Manifesti del Surrealismo, tr. it. di Liliana Magrini, Einaudi, Torino, 1987.