“Non sarò in ufficio fino al 2019”

Immaginate di lavorare in un grande ufficio: ogni mattina arrivate alla vostra postazione, vi sedete di fianco ai colleghi e lavorate agli stessi progetti. Probabilmente avete la stessa laurea e magari avete frequentato la stessa università. Una cosa, però, vi distingue: a fine mese, la vostra busta paga reca scritta una cifra più bassa rispetto a quella dei vostri colleghi.

Se siete uomini, probabilmente ciò che avete appena letto vi sembrerà improbabile; molte donne, invece, non faticheranno a riconoscersi in questa situazione. Il gender pay gap, come viene definito in inglese, è infatti una dei molti risvolti di un sessismo radicato a tal punto nella società contemporanea da passare quasi inosservato. Eppure, i dati sono impietosi: secondo uno studio globale condotto dall’ONU, le donne guadagnano in media il 23% in meno degli uomini. 

Per tradurre la percentuale in un esempio concreto, la Fawcett Society, gruppo londinese che si batte per la parità di genere, ha calcolato che, se gli stipendi maschili e femminili fossero uguali, le donne raggiungerebbero la loro attuale retribuzione annua il 10 novembre. È proprio questa la data scelta per l’Equal Pay Day, una giornata di sensibilizzazione sul tema; l’iniziativa è stata supportata da migliaia di donne attraverso un’azione semplice ma di fortissimo impatto. Per tutto il giorno, infatti, le loro caselle di posta elettronica hanno inviato una sola risposta automatica a tutti i messaggi: “non sarò in ufficio fino al 2019”.

La reale portata di questa disparità di retribuzione è, tra l’altro, difficile da stimare. Le indagini a livello europeo, infatti, la quantificano basandosi meramente sulla differenza tra la busta paga di un uomo e di una donna che svolgono lo stesso lavoro: in questo modo, si ottiene una tabella che va dal 5,2% di differenza in Romania al 25,3% dell’Estonia, con l’Italia che si attesta seconda tra i virtuosi grazie al suo “modesto” 5,3%.

Ma c’è un secondo fattore da considerare, più subdolo e forse meno immediato da cogliere, ovvero il fatto che le tutele offerte alle donne dai contratti di lavoro sono quasi sempre inadeguate. Basti pensare che, stando ai dati delle Nazioni Unite, ogni gravidanza fa perdere ad una donna il 4% del suo stipendio, per la legislazione sbagliata o assente in fatto di congedo di maternità e reintegro sul posto di lavoro.

Come se non bastasse, le disparità di genere nel mondo del lavoro non si limitano solo ai salari, ma interessano anche le mansioni svolte. I lavori meglio retribuiti, infatti, sembrano essere riservati ai soli uomini.

Nel nostro paese, però, la politica si è adoperata per affrontare il problema: nel 2012 le parlamentari Lella Golfo, PdL, e Alessia Mosca, PD, hanno presentato un disegno di legge -poi approvato- per cercare di colmare il divario accumulato negli anni. Si tratta della Legge 120/211, anche detta “Legge sulle Quote Rosa”, che impone alle aziende quotate in borsa di arrivare, entro il 2022, ad avere un perfetto equilibrio tra uomini e donne all’interno dei loro consigli di amministrazione. 

Al momento, il quadro nazionale restituisce una proporzione di una donna ogni due uomini; potrebbe sembrare poco, ma se si pensa che sette anni fa, al momento dell’entrata in vigore della legge, il rapporto era inferiore a un quinto, la direzione presa pare essere quella giusta.

 Ma a fronte di questo buon risultato, la politica italiana ha fatto segnare una pesante sconfitta sul fronte interno. Le ultime elezioni hanno infatti consegnato al paese un parlamento a fortissima prevalenza maschile: su 950 tra deputati e senatori, più dei due terzi sono uomini, 643; e questo nonostante il Rosatellum, attuale legge elettorale, prevedesse criteri apparentemente ben pensati per stabilire una parità quasi perfetta nelle aule romane.

Come notato già prima delle elezioni dai maggiori quotidiani nazionali, non è stato difficile per i partiti organizzare le candidature in maniera tale da ottenere un unico possibile esito, pur rispettando le direttive imposte, evidentemente in maniera troppo ottimistica, dalla legge elettorale.

A quanto pare, insomma, la strada da fare è ancora lunga e decisamente in salita. Il mondo del lavoro -e con lui, purtroppo, il mondo in generale- fatica ad accettare i risultati ottenuti in due secoli di lotte per l’emancipazione femminile. 

Certo, in buona parte del mondo le donne possono finalmente fare qualsiasi lavoro desiderino, ma se il prezzo è farlo guadagnando meno dei colleghi uomini chiaramente qualcosa ancora non funziona. 

Le battaglie per la sensibilizzazione sul gender pay gap non mancano, e a quanto pare stanno dando buoni frutti: un recente sondaggio della Commissione Europea ha rivelato che, per la maggior parte dei cittadini comunitari, donne e uomini dovrebbero percepire lo stesso salario.

La speranza insomma è che, magari con l’aiuto dei social, e soprattutto confidando nel buonsenso delle nuove generazioni, le differenze tra uomini e donne vengano davvero spianate una volta per tutte. Con buona pace dei nostalgici del patriarcato.

 

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