“È incredibile dove si possa arrivare con un 4 in arte, un’immaginazione bacata e una sega elettrica”
Se l’arte è, tra l’altro, comunicazione, essa è certamente in grado di comunicare il terrore, l’obbrobrio e la violenza con la stessa efficacia con cui parla di sentimenti, fiori e paesaggi. L’estetica del disgusto, la poetica del deforme, ha contraddistinto l’opera di artisti come Bacon e Soutine, e vede nel discorso sul “brutto”, sul contro-finale, sul kakòs kai aischròs , la rivelazione di una prospettiva originale sul mondo, impegnata in una lettura perfettamente collaudata sull’immediatezza dei nostri sensi: la risposta repulsiva, il distacco tremante, il distogliere lo sguardo…
L’Inghilterra, a tal proposito, ci ha regalato la più grande espressione contemporanea di questo malheur estetico: Damien Hirst. Di lui si è detto molto: ha impagliato squali, ha sterminato stormi di farfalle, ha ricoperto di diamanti un teschio umano, ha messo in formaldeide corpi squarciati… tutto al nobile e selvaggio fine di parlare della morte. La Mietitrice, immagine tragicamente inflazionata, trova una dignitosa figuralità nella repellenza della sua crudeltà, nel realismo della sua connotazione brutale, corporea ed anti-sacrale. La morte, in Hirst, viene in qualche modo ricordata, l’artista smette di parlare di lei e fa parlare lei stessa: “L’impossibilità fisica della morte”, opera più celebre e discussa dell’artista inglese, getta violentemente nell’occhio dello spettatore la possibilità di conservare il deteriorabile, di ovviare al putrefatto; ma lascia implicita la grande ed invisibile presenza della sparizione della vita. In qualche modo, Hirst si serve di una reductio ad absurdum: esaurita una descrizione meticolosa ed iperrealistica in primo luogo del fenomeno fisico della morte e poi della capacità della tecnica umana di ovviare ad esso, non resta che riflettere su quell’incolmabile assenza, su quell’infinita ed ineffabile alterità mancante, quella della morte nella sua essenza, della morte presa dal punto di vista della capacità di ogni essere vivente di essere esistenzialmente mortale. Poco importa della tragedia dell’infilzamento, della doglianza per la sofferenza e del timore per la liquefazione. La morte sopravvive anche oltre la condizione deteriorabile del tutto.
A prescindere dal contenuto, stilisticamente Hirst tocca il limite sensibile tra arte e non-arte. Per ragioni morali, economiche, politiche, storiche, estetiche… quella di Hirst è arte oppure no. La sua grandezza sta proprio nel fatto che la messa a punto di questo dilemma critico lo rende a tutti gli effetti un artista che supera questa dialettica “opera/non-opera”, un grande artista, un grande artista in quanto paradossale. È innegabile che la pretesa creativa di Hirst sia qualcosa di perfettamente inscritto nel sistema socio-economico contemporaneo, per cui l’emersione, l’elezione di un artista è dovuta in larga parte alla sua capacità di non essere altri, alla sua eminente autorialità mischiata a tutt’altro-che-un-pizzico di hybris e spettacolarità. La grandezza dell’uomo-contemporaneo-Hirst sta proprio nel far parlare della sua arte, a prescindere dal contenuto, con un’attenzione solo conseguentemente estetica, e quindi banalmente recettiva, passiva, emotiva. La sua estetica del disgusto viaggia su diversi livelli di discorso: ad una prima fase meramente ricettiva segue un’elaborazione critica (“ma dov’è il senso?”), e solo in terza fase, una fase occorrente o meno, esiste la possibilità di dire di aver colto un senso, di aver scrutato nell’orrore e di aver tratto un valore. Molta dell’originalità di Hirst sta proprio nella popolarità del “discorso sulla sua arte”. Se se ne parla, la sua poetica ne trae successo (e profitto).
In un certo senso, la filosofia dell’opera di Hirst sopravvive all’ambiguità del martirio dell’artista. S’intenda: Damien Hirst è il più ricco artista vivente, nessuna opera contemporanea è economicamente paragonabile ai suoi capolavori, e l’artista è universalmente riconosciuto come quello che il nostro secolo ha da lasciare alla storia dell’arte. Tuttavia, la sua comunicazione vuole andare ben oltre i salotti artistico-letterari, ben oltre le orecchie di chi ha orecchie per intendere: alla gente del “potevo farlo anch’io”, egli risponde con una scomposta e volgare violenza, decisamente pop ma ancor più decisamente anti-moderna nello spirito e nella lettura storica generale. Chi sarebbe in grado di basare una carriera su un mucchio di cadaveri? Chi potrebbe, tra i moderni, bestemmiare contro il carattere “finzionale” dell’arte e cavalcare un così barbaro realismo? Hirst supera le domande e le opinioni del moralista moderno, dell’ordinaria gente libera, scavalca il recinto di Maya che divide l’arte dal dominio dell’arte… si avventura nell’anti-cultura più incolta e distruttiva.