San Siro 2016. Sono settantamila gli spettatori che, giunti da ogni angolo d’Italia, lo chiamano dalle prime file: «Bruuuce!». Tre giorni che non dormono. Accampati in massa fuori dallo stadio per accaparrarsi il tanto agognato PIT, hanno gli occhi lividi e stanchi, ma la voce ancora ferma e tonante, perché bisognerà cantare per più di tre ore. Quando il Boss, Bruce Springsteen, sessantanove anni ed energia da vendere, fa il suo ingresso sul palco, accompagnato dalle note di Once Upon a Time in the West di Ennio Morricone, ecco che allora tutta la fatica si dilegua d’un tratto, per lasciare spazio a lui, alla “heart-stopping, pants-dropping, love-making” E Street Band. La storia si ripete a Parigi, a Roma, a Zurigo.
Chi ha assistito almeno una volta a un concerto di Springsteen sa che mai altra esperienza potrà essere eguale. Magari ha ancora in testa quell’oh oh oh di dieci minuti, in coda a Badlands, o forse ancora piange ripensando all’armonica a bocca che da sempre accompagna il classico dei classici: Thunder Road, in versione acustica. Bruce Springsteen è il mito, la leggenda. Trentun album pubblicati, un’infinità di concerti sold out, un libro best-seller, un Premio Oscar, addirittura un asteroide battezzato col suo nome. «Bruce, can you dance with me?». Qualche ragazza ci riesce. E immancabilmente cambierà la foto profilo su ogni social.
Ma chi è in realtà Bruce Frederick Joseph Springsteen?
Dopo l’ultimo grande tour, che ha toccato ben tre continenti in occasione della riedizione dell’album The River, The Ties That Bind: The River Collection, Bruce si è fermato per un anno, dall’ottobre 2017 al 15 dicembre 2018. Una tregua per la E Street Band e una sosta a Broadway, nel piccolo Walter Kerr Theatre di New York, sul palco del quale il Boss ha deciso di raccontarsi per duecentotrentasei volte. Springsteen on Broadway, reso nel dicembre 2018 disponibile sulla piattaforma Netflix, è un intimo e delicato one man show, che alterna ad alcune delle canzoni più rappresentative del repertorio springsteeniano, suonate con la chitarra o il pianoforte, una serie di aneddoti autobiografici, narrati da Bruce in persona: alcuni tratti dall’autobiografia Born to Run, edita nel 2016, altri nuovi anche per il fan più accanito.
C’era una volta Freehold, una città costiera, pervasa dall’odore di caffè e dal ticchettio metallico di una fabbrica di tappeti. Le parole che
È il mio trucco magico. Sono qui stasera per provarvi che siamo ancora vivi. Noi così inafferrabili e mai del tutto credibili, soprattutto in questi giorni.
Il pubblico si fida, è pronto a seguirlo per due ore, ad andare con lui, per una volta, oltre il mito. Il racconto di Springsteen comincia dalle origini, con la scoperta e il noleggio di una chitarra a sette anni, troppo povero per potersela permettere. Il fan conosce già la madre del boss, Adele, ballerina novantatreenne, radiosa e solare; ma forse non sa molto del padre. La parte più commovente dello show si apre proprio con un drammatico ricordo di lui, perennemente assente e alcolizzato. Il piccolo Springsteen non sa ancora cosa sia la depressione, ma sente la mancanza di una figura paterna su cui contare.
Quelli da cui vogliamo amore, ma non lo otteniamo, sono quelli che emuliamo […] Mio padre era il mio eroe e il mio più grande nemico.
Tra le note di My Father’s House, Bruce confida al pubblico di aver emulato quel padre irraggiungibile indossando i suoi vestiti. E poi un sogno: immagina di mostrare al padre se stesso, mentre suona.
Guarda papà, quell’uomo sul palco, è così che ti vedo.
Si trattengono a stento le lacrime, in quella che è una confessione intima, profonda, pur trattata a momenti con quell’ironia tipica dello showman.
Il racconto procede con le disavventure iniziali della E Street Band, in cerca di affermazione e successo, e la fuga dal terribile “Jerserkistan”, il New Jersey deserto e privo di opportunità per un giovane sognatore. Un’avventura in pick-up, senza patente, perché, ebbene sì, l’uomo nato per correre, Racing in the Street, non sa guidare. La E Street Band si forma pian piano, suonando nei bar, negli aeroporti, nelle carceri. Patti Scialfa, moglie e corista, sale sul palco e duetta con il marito, in quella che è da sempre la loro canzone, Tougher Than the Rest.
Ma l’elogio appassionato e gli applausi più calorosi vanno tutti per Clarence Clemons, il tenore sassofonista morto nel 2011, dopo quarant’anni accanto a Bruce, un po’ amico, un po’ figlioccio. È a lui che Bruce dedica Tenth Avenue Freeze-Out, la storia leggendaria del loro primo incontro. «Perderlo» afferma il cantante «è stato come perdere la pioggia».
When the change was made uptown
And the Big Man joined the band
From the coastline to the city
All the little pretties raise their hands
I’m gonna sit back right easy and laugh
When Scooter and the Big Man bust this city in half
With a Tenth Avenue freeze-out, Tenth Avenue freeze-out
Il titolo della canzone resta tuttora un mistero ma gli pseudonimi sono chiari: Scooter è Springsteen e Big Man il grande (in tutti i sensi, specifica il rocker) sassofonista. Big Man salva Scooter. Non è la prima volta che l’omaggio si leva così forte su un palcoscenico. Tenth Avenue Freeze-Out è la canzone di Clarence e, come tale, viene eseguita in tutti i concerti, accompagnata solitamente da un video ricordo, che mostra Clemons nelle sue migliori performance. Non è un caso che, accanto a Bruce, ora ci sia il nipote di Clarence Clemons, Jake, in attività con la E Street Band dal 2012.
Ciò che resta poi nel cuore delle novecento persone strette nel Walter Kerr Theatre, uno dei più piccoli del Theatre District, è la confessione di Bruce, così confidenziale e raccolta, che spiazza e commuove per l’ennesima volta, laddove il musicista si accinge a parlare di nuovo del padre. Sono gli ultimi giorni della prima gravidanza di Patti, racconta Springsteen, e senza preavviso appare il padre, dopo aver guidato solo per ottocento chilometri.
Quando mio padre, che non è mai stato di molte parole, farfugliò un «sei stato davvero buono con noi» io annuii, dandogli ragione. Ma poi aggiunse: «Ma io non lo sono stato con te». La stanza si fermò. Con mia grande sorpresa l’inammissibile veniva ammesso […]. Negli ultimi giorni, prima di diventare padre, mio padre mi venne a trovare per dirmi i suoi errori. E per avvertirmi di non farli con i miei figli.
Mentre Bruce intona Long Time Comin’, gli occhi dello spettatore si fanno lucidi. Non solo: a teatro forse non è visibile, ma lo spettacolo reso disponibile su Netflix ci mostra sul palco un viso provato, gli occhi umidi, la mano salda sul manico della chitarra.
Well my daddy he was just a stranger
Lived in a hotel downtown
When I was a kid he was just somebody
Somebody I’d see around
Somebody I’d see aroundNow down below and pullin’ on my shirt
I got some kids of my own
Well if I had one wish in this god forsaken world, kids
It’d be that your mistakes would be your own
Yeah your sins would be your own
Oltre il mito, la leggenda, si mostra dunque l’uomo. I sessantanove anni ora appaiono tutti, tra le rughe del volto e la voce che si fa più rauca. Per l’ultimo omaggio al padre, Springsteen accompagna alla chitarra l’armonica a bocca, intonando quella che è al tempo stesso una preghiera e un’estrema assoluzione. Davanti a mille persone, il musicista si fa solamente figlio, disposto a riconciliarsi con il genitore, non più “fantasma”, ma “antenato”.
Dopo aver parlato di sé per un paio d’ore ricche di emozioni e confessioni, interrotte a momenti da sketch e battute allusive perché Bruce è, non dimentichiamolo, innanzitutto uomo di spettacolo, il rocker rompe direttamente la quarta parete e si rivolge ai propri fan, i fan del Walter Kerr Theatre, quelli che lo guardano su Netflix e soprattutto quelli che lo seguono, proseliti, concerto dopo concerto.
Non ho mai creduto che la gente venisse ai miei spettacoli o ai concerti rock in generale per sentirsi dire qualcosa. Ma credo che vengano perché gli si ricordino cose, perché gli si ricordi chi sono quando sono felici e quando la loro vita è piena […]. E’ bello stare tra la folla, ricordarsi chi siamo e chi possiamo essere insieme agli altri.
Nonostante il nome di Trump non venga mai pronunciato, il messaggio lanciato da Bruce ai fan è chiaro. Il cantante ricorda con commozione la “Marcia per le nostre vite“ tenutasi a Washington il 20 marzo 2018 e organizzata dai giovani sopravvissuti alla sparatoria di febbraio a Parkland, in Florida. Una sola buona giornata, ma necessaria. Springsteen, noto per il sostegno a Hillary Clinton durante la campagna elettorale e per la ferrea opposizione alla politica di Trump, sul palco del Walter Kerr invita il popolo americano, tra la vergogna e le manifestazioni di odio sempre più frequenti, ad
agire nel modo giusto, vivere con compassione. E avere fede che quello che stiamo vivendo è solo un altro difficile capitolo in una lunga e incessante battaglia per l’anima della nazione.
Le vesti dell’uomo ordinario vengono a questo punto dismesse dopo due ore ininterrotte di segreti familiari, e Springsteen si fa un po’ novello Martin Luther King, profeta di speranza. Dopo la drammatica The Ghost of Tom Joad, la celebre canzone dell’album Nebraska (1995), dedicata alla tematica dell’immigrazione e al divario tra ricchezza e povertà, Bruce intona senza soste The Rising. La scelta non è casuale: The Rising è la canzone della rinascita, della speranza oltre la rovina e le macerie. Scritto dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 ed emblema del trauma del popolo americano che, attaccato dritto al cuore, ha smarrito la propria identità, il testo invita a risorgere, a unire le mani e a guardare avanti. L’appello di Springsteen all’America consiste nel riscoprire cosa vuol dire essere americani: aiutarsi reciprocamente a dare un senso alla storia.
Il futuro è da scrivere. Fate come diceva la mia possente mamma: mettetevi le scarpe da ballo e andate a lavorare.
Standing ovation per il boss prima dell’ultima poetica memoria. Negli ultimi minuti dello spettacolo, Springsteen ricorda ancora una volta la propria infanzia. L’albero che sorgeva lungo la strada di Freehold, l’albero rifugio, non c’è più. Restano solo delle radici ammuffite, strette nella terra, e il cielo. Il cantante, il poeta, l’uomo, pensa a quell’albero come a un testimone immortale, supervisore di una vita e di una storia, ricche di gioia e di dolore. Come l’albero, Clarence Clemons, Danny Federici, il padre o i morti del Vietnam, ricordati da Born in the U.S.A., non se ne sono andati del tutto.
L’anima è testarda. Non se ne va così velocemente. Le anime restano nell’aria, nelle radici polverose, nei marciapiedi che conoscevo come le mie tasche quando ero piccolo. E nelle canzoni che cantiamo. Sapete, è per questo che cantiamo. Cantiamo per il nostro sangue e per i nostri cari. Perché è tutto ciò che ci resta alla fine.
Per concludere, quello che Bruce riesce a regalarci dopo due ore e mezza di incanto e di raccoglimento è un moto e un inno all’amore, ciò che rimane in fondo ed è in grado di dare senso anche ai brutti capitoli della storia. Negli ultimi minuti un Padre nostro sussurrato, un ritorno alle chiese dell’infanzia. La preghiera non è fuori luogo, come non lo era nell’autobiografia di Bruce: è un ennesimo atto di amore e di fiducia nell’umanità, che tanto manca ai giorni nostri. Vi invito a mettervi comodi davanti al computer, con le cuffie e una tisana in mano. Ascolterete la voce di un uomo “straordinariamente ordinario”, come ha scritto qualcuno, un uomo che per una volta si spoglia dell’abito leggendario che tutti conosciamo per prenderci per mano. Da Freehold a Broadway, per insegnarci che “se parliamo di un sogno, dobbiamo realizzarlo”.
Someday girl I don’t know when we’re gonna get to that place
Where we really want to go and we’ll walk in the sun
But till then tramps like us baby we were born to run.
Netflix, Springsteen on Broadway
Bruce Springsteen, Born to Run, Mondadori, 2016