La campana di vetro: respirando l’aria mefitica del sessismo

New York, inizio anni ’50. Esther Greenwood è una delle fortunate (e talentuose) vincitrici di un concorso organizzato da una famosa rivista di moda, il cui premio consiste in

«un mese di praticantato a New York, completamente spesate, con in più montagne di buoni acquisto, biglietti per il balletto, inviti a sfilate di moda, sedute gratis da un famoso e costosissimo parrucchiere, occasioni per incontrare gente che aveva sfondato nel campo dei nostri sogni, nonché lezioni di trucco personalizzate».

In teoria Esther avrebbe dovuto divertirsi da pazzi; «essere l’invidia di migliaia di ragazze di tutti i college d’America», eppure in quel mondo sfavillante e mondano, sommersa di regali, bei vestiti e inviti in ristoranti alla moda, non si sente a suo agio, sempre intrappolata «sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica». Non è padrona di niente, si sente trascinata passivamente da un posto all’altro, non riesce a sentire l’eccitazione che provano le altre, è «inerte e vuota come deve sentirsi l’occhio del ciclone».

Ne La campana di vetro, Sylvia Plath non si limita a raccontare la storia di Esther – per altro con una fortissima connotazione autobiografica – ma tratteggia un ritratto impietoso della società americana, ipocrita, superficiale e profondamente misogina.

La giovane protagonista del romanzo non vuole sposarsi, non vuole avere figli, vuole essere una scrittrice, libera e indipendente; ma si scontra puntualmente contro una società che la vorrebbe docile, “normale”, ansiosa di sposarsi e mettere su famiglia.

Ancora non sa quale sia la sua strada, il suo futuro, e questa fretta di scegliere la terrorizza:

«Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l’Europa e l’Africa e il Sud America, un altro fico era Constantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anti-convenzionali, un altro fico era la campionessa olimpionica di vela, e dietro e al di sopra di questi fichi ce n’erano molti altri che non riuscivo a distinguere. E vidi me stessa seduta sulla biforcazione dell’albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare per sempre a tutti gli altri, e mentre me ne stavo lì, incapace di decidere, i fichi incominciarono ad avvizzire e annerire, finché, uno dopo l’altro, si spiaccicarono a terra ai miei piedi».

La terrorizza una vita al servizio di un marito, di uomini per cui il suo aspetto e la sua verginità sono le uniche cose che la rendono desiderabile.

E nemmeno le amiche, le madri, le donne di riferimento della sua vita (salvo poche eccezioni) le sono d’aiuto; le insegnano che «l’uomo cerca una compagna, la donna cerca la sicurezza assoluta» e «l’uomo è una freccia scoccata verso il futuro e la donna è l’arco da cui scocca la freccia».

Ma Esther non vuole la “sicurezza assoluta”, o essere lo strumento da cui scocca la freccia suo marito; lei vuole essere libera, vuole «novità ed esperienze esaltanti, […] essere una freccia che vola in tutte le direzioni come le scintille multicolori dei razzi il 4 Luglio».

Plath ci racconta che «quando sei sposata e hai dei figli è come se ti avessero fatto il lavaggio del cervello e vai in giro come un’ebete, come una schiava di uno stato totalitario privato», di madri che ritagliano e spediscono alle figlie articoli intitolati In difesa della castità, in cui un’avvocatessa sposata e con figli elenca «tutti i motivi per cui una ragazza non deve andare a letto con nessun uomo che non sia il marito e comunque solo dopo il matrimonio» e conclude dicendo che non esistono sistemi anti-concezionali sicuri.

Ma quello che coglie Esther – Sylvia – dell’articolo non è tanto il terrorismo psicologico o la tesi di fondo secondo cui

«il mondo maschile è diverso dal mondo femminile e le emozioni dell’uomo diverse da quelle della donna e che soltanto il matrimonio può conciliare e armonizzare i due mondi e i due diversi modi di sentire»,

quanto il fatto che in tutto questo sproloquio a difesa della verginità (femminile) «l’unica cosa che non veniva mai presa in considerazione erano i sentimenti della ragazza».

Educata a credere che una donna dovesse arrivare vergine al matrimonio, Esther presume che per gli uomini valga la stessa regola; quando però scopre che Buddy Willard, il suo ragazzo del college, ha avuto esperienze sessuali con una cameriera rimane sconvolta, non riesce a sopportare l’idea che «la donna debba avere una sola vita, casta, e l’uomo invece può condurre una doppia vita, una casta e l’altra no».

Vivere in questo mondo sessista la turba; non riesce a smettere di pensare che in lei ci sia qualcosa di profondamente sbagliato, di irrisolto, il che la spinge sempre più in un baratro di depressione e tendenze suicide. La pressione di questo doppio standard, che vede gli uomini fare carriera e le donne a casa a badare alla famiglia, è troppo per lei, per la sua intelligenza vivace e la sua ansia di darsi da fare e trovare un posto nel mondo.

Esther – come Sylvia – tenta il suicidio, viene internata in diversi reparti psichiatrici e sottoposta all’elettroshock; è vittima di una società opprimente, ipocrita e sessista, che falcia senza pietà chi non sa o non vuole conformarsi.

Ma alla fine – liberatasi del peso opprimente della sua verginità grazie alla prescrizione di un diaframma – si salva da sola e di fronte alla commissione che la dichiara “guarita” racconta: «feci un profondo respiro e ascoltai il mio cuore ripetere l’antica vanteria. Io sono, io sono, io sono».

 


FONTI
S. Plath, La Campana di Vetro, Mondadori, 2016

 

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