La mattina del 10 dicembre, chi cammina per la centralissima via Madonna dei Monti a Roma nota una grande buca nel selciato. Non è, però, un’altra delle tante buche dovute all’incuria: la causa, stavolta, è ben diversa. Nel cuore della notte precedente, infatti, sono state strappate dal marciapiede venti pietre d’inciampo, lì poste in memoria della famiglia Di Consiglio, sterminata dai nazisti tra Auschwitz e le fosse Ardeatine.
Facciamo un passo indietro per spiegare cosa sono queste pietre d’inciampo: si tratta della forma tangibile di un progetto che l’artista tedesco Gunter Demnig porta avanti dal 1992 per commemorare le vittime del nazismo, indipendentemente dalla loro etnia o religione. Si presentano come sampietrini rivestiti in ottone, che misurano 10cm x 10cm e recano incisi il nome, le date di nascita e morte e quella dell’arresto o della deportazione della vittima che commemorano; non è raro incontrarle nelle grandi città, italiane o europee, di fronte alle abitazioni di famiglie ebree uccise dalla follia nazifascista.
Come molte altre iniziative volte a tramandare la memoria storica di un evento spaventoso e delicato da trattare quale è stata la Shoah, anche le installazioni concepite da Demnig hanno dovuto scontrarsi con critiche e controversie, avanzate tanto dai residenti dei palazzi davanti a cui vengono incastonate quanto dalle comunità ebraiche locali; emblematico, a tal proposito, è il caso di Monaco di Baviera, dove i fedeli hanno chiesto di non posizionarle vedendo nel loro calpestio un’offesa verso i defunti.
Ma oltre ad opposizioni argomentate e comprensibili, molte Stolpersteine – questo il loro nome tedesco – sono state oggetto di atti vandalici e furti; il gesto compiuto a Roma, i cui autori sono peraltro ancora ignoti, è quindi l’ultimo di una lunga serie: a detta dello stesso artista, la sola Germania è stata teatro di oltre settecento furti, perpetrati sia da mitomani che da gruppi neonazisti.
E mentre la sindaca di Roma Virginia Raggi ha deciso di far riposizionare le pietre a spese del Comune, e la Procura della capitale ha aperto un fascicolo per furto aggravato dall’odio razziale, non sono mancate le dure e compatte reazioni dell’opinione pubblica; su tutte, spiccano le parole di rammarico della Senatrice a vita e reduce dei lager Liliana Segre, secondo la quale il furto è «una cosa talmente orribilmente vigliacca che non ho parole», e la forte denuncia della presidentessa di “Arte in Memoria”, Adachiara Zevi, che vede nel gesto «un attacco inaudito di fascismo e di antisemitismo fatto da gente che non scherza».
Sì, perché nonostante i colpevoli del furto non siano stati identificati, e dunque il movente rimanga per ora oscuro, è immediato pensare ad un bieco tentativo di sradicare – anche materialmente – il ricordo di un abominio lacerante e disumano come l’Olocausto.
Del resto, i dati raccolti dall’associazione Lunaria in uno dei suoi ultimi dossier parlano chiaro: nei primi tre mesi del 2018, i casi documentati di episodi di razzismo -dalle aggressioni fisiche e verbali alle minacce scritte sui muri- sono stati 169, quasi due al giorno. Ma se centosessantanove persone che esprimono il loro odio sono tante, sono, purtroppo, molte di più quelle che, per indifferenza o menefreghismo, non impediscono che ciò accada, guardano dall’altra parte, si rifiutano di cogliere il clima di tensione che sempre più stretto avvolge la nostra società.
E ai dati raccolti in Italia da Lunaria fa eco la ricerca svolta dall’Agenzia per i diritti fondamentali, organo dell’Unione Europea, in dodici paesi membri. Degli oltre 15000 intervistati, tutti membri di comunità ebraiche, l’89% percepisce un aumento dell’antisemitismo nel suo paese di residenza, e l’85% vede nell’odio contro gli ebrei il principale problema sociale – ritenendolo più preoccupante di disoccupazione e immigrazione.
Commentando tali dati, il vicepresidente della Commissione Europea Frans Timmermans ha invitato tutti a studiare la storia, e in particolare la pagina buia dell’Olocausto, dichiarando che «Il XX secolo ha conosciuto tanti mali. Quello che resta più difficile da curare è l’antisemitismo, ed è essenziale combattere questo flagello con vigore e collettivamente.»
E in passato già Primo Levi, sopravvissuto ai campi di sterminio e tra i primi scrittori ad affrontare il tema della memoria dell’Olocausto, disse che “tutti coloro che dimenticano il proprio passato sono condannati a riviverlo”.
Proprio per questo motivo sono state concepite le Stolpersteine: ma se lasciare il compito di ricordare ad una pietra sul marciapiede è senz’altro una scelta facile, non dobbiamo né possiamo per questo sentirci esentati dalla responsabilità della memoria.
Sono i numeri a dirci che lo spettro dell’odio per il “diverso” è sempre in agguato, pronto a colpire non appena si abbassa la guardia, soprattutto quando addirittura le campagne elettorali dipingono come cattivi coloro che non incarnano i valori cristiani tradizionali.
Siamo quindi noi, in prima persona, a doverci impegnare ogni giorno, in qualsiasi situazione, affinché nulla di quanto è stato barbaramente compiuto il secolo scorso possa mai ripetersi. Perché le idee delle persone sono molto più difficili da sradicare di un semplice sampietrino.