Gli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini sono una raccolta di articoli, lettere e interventi scritti tra il 1973 al 1974, riuniti in volume dalla volontà dello stesso autore e pubblicati postumi da Garzanti nel 1975, anno della sua morte. L’opera costituisce un’analisi critica originale, acuta e inedita della società sviluppata: non esiste, in tutta la letteratura italiana, un autore o un’autrice che abbia esaminato con tale acume e lungimiranza il fenomeno dell’omologazione di massa che ha investito l’Italia nei primi decenni dopo la caduta del fascismo e il boom economico, arrivando oltre i moti del ’68. Leggere oggi Scritti corsari significa scavare in profondità fino alle radici della realtà sociale che stiamo vivendo; significa accorgersi che qualcuno, mentre tutto cambiava, osservava con sguardo vigile le mutazioni in atto e ne percepiva il peso e la gravità in maniera profondamente intima e personale. Pasolini, da intellettuale, avvertiva – nonostante la limitatezza empirica del suo vissuto – quello che nel suo tempo era già teorizzato all’estero da sociologi e antropologi e, malgrado ciò, risultava una mosca bianca presa di mira anche dalle menti più brillanti.
Il titolo della raccolta, già di per sé, merita considerazione: Pasolini sarà spesso definito “scrittore corsaro” per i suoi instancabili “arrembaggi”, da una parte le coscienze individuali, dall’altra i costumi della società consumistica. In questa precisa raccolta il termine “corsaro” è da leggere anche nel suo significato più profondo ed etimologico: il sostantivo, infatti, deriva dal verbo latino “currere” che rimanda a un movimento continuo e infaticabile che caratterizza la sua prosa. Pasolini ne è ben consapevole e nella nota introduttiva mette in guardia i suoi lettori:
«Mai mi è capitato nei miei libri, più che in questo di scritti giornalistici, di pretendere dal lettore un così necessario fervore filologico. Il fervore meno diffuso del momento».
I testi, aderenti alle aspettative, presentano una vena fortemente polemica e una tendenza all’invettiva aggressiva, ma non per questo meno schematica, dialettica e puntuale. Tale invettiva si indirizza a differenti destinatari, intellettuali, politici e chierici, seguendo un filo conduttore comune della critica alla moralità (o amoralità) della società contemporanea e all’edonismo consumistico capitalista. Il consumismo, che pone le radici della sua affermazione negli anni che seguono la caduta del fascismo, è considerato dall’autore un vero e proprio “cataclisma antropologico” e uno strumento di potere nelle mani di quello che viene definito “nuovo fascismo”. Se il fascismo mussoliniano era basato su strutture rigide di apparenza e di facciata – seppur convincenti per qualcuno – che tuttavia difficilmente arrivavano a toccare e a modificare intimamente l’anima dei giovani,
«questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta più, come nell’epoca mussoliniana, di una irreggimentazione superficiale, scenografica, ma di una irreggimentazione reale che ha rubato e cambiato loro l’anima. Il che significa, in definitiva, che questa “civiltà dei consumi” è una civiltà dittatoriale. Insomma, se la parola fascismo significa prepotenza del potere, la “società dei consumi” ha bene realizzato il fascismo».
Ma cosa si intende esattamente per “consumismo”? Da Treccani: «aumento dei consumi per soddisfare i bisogni indotti dalla pressione della pubblicità e da fenomeni d’imitazione sociale diffusi tra ampi strati della popolazione».
Sul concetto della pressione pubblicitaria, Pasolini pone l’attenzione in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera dal titolo Il folle slogan dei jeans Jesus: l’autore parla di un noto slogan degli anni ’70 riportato sui manifesti dei “jeans Jesus”, al tempo in voga; lo slogan o, meglio, gli slogan recitavano «chi mi ama mi segua» e «non avrai altro jeans all’infuori di me» con lettere stampate sul posteriore o sulla patta aperta di un avvenente corpo femminile. La campagna pubblicitaria è utilizzata come esempio per esporre il cambiamento del linguaggio causato dall’affermazione della società consumistica: il linguaggio aziendale ed economico, in quanto tale, fino a quel momento era stato per definizione puramente e rigidamente comunicativo e pragmatico, poiché un linguaggio praticato nell’economia e negli affari dovrebbe essere chiaro e privo di sottigliezze espressive. A seguito della spinta consumistica sostenuta dalla pubblicità – e quindi dallo slogan – invece, questo tipo di linguaggio, seppur industriale, si fa espressivo e carico di significati ideologici. Si tratta, però, di un tipo di espressività definita da Pasolini “mostruosa”, in quanto volta a uno scopo – quello di impressionare e convincere all’acquisto – e quindi rigidamente stereotipata. È il paradosso di un’espressione che non si presta alla libera interpretazione, venendo meno al suo significato intrinseco.
«Essa è il simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato.»
In più, lo slogan dei “jeans Jesus” è esemplificativo della spiritualizzazione dei nuovi valori commerciali, che sostituiscono quelli tradizionali, anche i più radicati come quello religioso. Per Pasolini, infatti, il periodo tra il 1971 e il 1972 ha segnato una vera e propria rivoluzione sociale che ha sancito una rottura senza soluzione di continuità con il passato e con la generazione precedente, attraverso una “condanna dei padri”. Questa condanna assoluta non ha permesso un confronto dialettico con essi e quindi un progresso e un superamento, di conseguenza ciò che si è ottenuto è una regressione.
L’autore parla nei suoi scritti di progresso, contrapponendolo al concetto di sviluppo: «il progresso è una nozione ideale (sociale e politica), là dove lo sviluppo è un fatto pragmatico ed economico». Ciò che si è verificato è uno sviluppo industriale imponente ma non sorretto dal progresso. I mass media sono stati, nello stesso tempo, strumento e conseguenza di questo sviluppo. Pasolini scrive nel discorso Il genocidio:
«è in corso nel nostro paese una sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno avuto grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la televisione. Con questo non sostengo affatto che tali mezzi siano in sé negativi: sono anzi d’accordo che potrebbero costituire un grande strumento di progresso culturale; ma finora sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di spaventoso regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio culturale».
Naturalmente lo scrittore non attacca la televisione come “strumento tecnico” ma come strumento di potere per veicolare messaggi. Tali messaggi, come sostiene in un’intervista sul Mondo, non sono diretti ed espliciti ma indiretti e basati sulla proposta di un modello di vita da imitare nei comportamenti.
Un altro autore italiano che si è soffermato sul ruolo della televisione nella cultura di massa, senza la carica invettiva di Pasolini ma con spirito critico e analitico, è Umberto Eco. La televisione è da lui individuata, infatti, tra le cause dell’appiattimento mentale delle masse. Più in generale, uno sguardo globale sugli effetti positivi e negativi della cultura di massa è illustrato da Eco all’interno del saggio Apocalittici e Integrati: la possibilità di scorgere dei lati positivi in questo nuovo clima sociale lo pone automaticamente in una posizione diversa rispetto a Pasolini che, al contrario, affronta la questione con profondo pessimismo. Ma quali sono questi aspetti positivi? Si fa riferimento all’accesso alla cultura per categorie a cui prima non era consentito, alla maggiore fruibilità e democraticità dell’informazione, alla soddisfazione del bisogno di intrattenimento e a una maggiore apertura nei confronti del mondo; gli aspetti negativi, invece, si individuano nella sottomissione delle trasmissioni alle leggi di mercato, nell’accettazione passiva delle opinioni proposte che vengono assorbite senza sforzo critico, ma soprattutto nell’omologazione e il conformismo delle masse.
L’omologazione e il conformismo, oltre che nella comunicazione di massa, vede la sua causa anche nello sviluppo delle infrastrutture, come evidenziato da Pasolini. Le infrastrutture moderne hanno unito il centro alla periferia e questo scambio, poiché non voluto autonomamente dagli individui ma imposto dall’alto attraverso modelli fissi di comportamento – a braccetto con il modello di mimesi televisiva – non ha portato a una crescita culturale ma all’abolizione delle differenze e delle culture periferiche, secondo un fenomeno descritto come centrismo.
Per penetrare maggiormente la gravità dell’omologazione antropologica, a cui oggi siamo talmente abituati da “subirla” come una situazione inevitabile e con i suoi risvolti favorevoli, occorre sviscerarne le ripercussioni sull’individuo: la società dei consumi ci ha abituati al benessere, ci ha imposto modelli di stile di vita, modi di essere e di vivere che sono accettati come unica realtà possibile; questi modelli, però, non sono sempre effettivamente raggiungibili nella realtà e questo provoca malessere e frustrazione nell’individuo, che anela senza soddisfazione a questo “ideale”. Da qui deriva l’ansia nevrotica del nostro tempo, la depressione e l’infelicità. Pasolini, a tal proposito, scrive sul Mondo:
«Una delle caratteristiche principali di questa uguaglianza dell’esprimersi vivendo, oltre alla fossilizzazione del linguaggio verbale, è la tristezza: l’allegria è sempre esagerata, ostentata, aggressiva, offensiva. La tristezza fisica di cui parlo è profondamente nevrotica. Essa dipende da una frustrazione sociale. Ora che il modello sociale da realizzare non è più quello della propria classe, ma imposto dal potere, molti non sono appunto in grado di realizzarlo. E ciò li umilia orrendamente».
Quest’ansia e questa frustrazione investono anche gli aspetti più intimi della vita personale, come gli affetti e la sessualità. La liberazione sessuale del ’68 ha abbattuto molti tabù, ma lo sviluppo della società dei consumi che vi ha fatto seguito ha reso la libertà sessuale un obbligo in quanto caratteristica necessaria del modello di vita imposto. Inoltre, questa libertà sembra appartenere di diritto solo al modello di riferimento ideale della società dei consumi, ovvero la coppia e la famiglia. Una libertà sessuale dell’individuo, non condizionata ma autonomamente desiderata ed espressa, non è conforme alla società dei consumi perché quest’ultima ha bisogno della massa per esprimersi e la famiglia è la base del mondo industrializzato: «la famiglia è diventata lo “specimen” minimo della civiltà consumistica di massa». Da qui, l’attualità del pensiero pasoliniano nel periodo storico che stiamo vivendo, in cui tutto ciò che non rientra nel modello tradizionale dato continua a essere discriminato ed escluso come diverso.
Sulle conseguenze negative della liberazione sessuale imposta dalla società dei consumi, si è espresso anche Michel Houellebecq – considerato il David Foster Wallace francese – nelle pagine del romanzo Le particelle elementari: qui, l’autore abbatte i luoghi comuni legati alla rivoluzione sessuale sessantottina attraverso uno stile cinico e corrosivo, tracciando un ritratto della mentalità francese postmoderna. La sessualità viene rappresentata, attraverso la vita dei due fratelli protagonisti, come una tensione continua tra il soddisfacimento egoistico e la promiscuità assoluta che non lascia spazio alla profonda condivisione. Questa tensione mette in luce la falsità della liberazione sessuale presentata come fenomeno collettivo, che in realtà si esprime con conseguenze profondamente individualistiche. Anche la Francia, infatti, come tutta l’Europa occidentale, è stata coinvolta dallo stesso fenomeno di sviluppo consumistico e “americanizzazione”, e con le medesime conseguenze, a dimostrazione di quanto la società capitalistica sia uno strumento di omologazione sociale senza distinzioni territoriali.
Se la crescita economica che ha seguito la guerra dei governi totalitari doveva presentarsi come un’alternativa a essi, in realtà per molti aspetti propone uno stesso livello di imposizione dei modelli di vita, meno esplicito e per questo più subdolo ma anche più convincente. Se prima il controllo sulle masse avveniva in maniera violenta e repressiva, ora i nuovi valori vengono sostituiti a quelli antichi “di soppiatto”.
Alla luce di queste riflessioni, è facile comprendere – nonostante lo scarto temporale – la durezza di Pasolini nell’identificare questo “nuovo potere” come un effettivo “nuovo fascismo”; ed ecco l’angoscia di un intellettuale che intravedeva nell’avvento della società capitalistica dei consumi una strada verso la disumanizzazione. In questa visione così cupa e pessimistica, però, la forza corrosiva degli Scritti Corsari testimonia un impegno a non cedere alla resa; le parole che seguono – scritte nel 1974 eppure profondamente attuali – sono allo stesso tempo un monito e un invito, un messaggio di consapevolezza e coraggio da rivolgere alle nuove generazioni:
«quando vedo intorno a me i giovani che stanno perdendo gli antichi valori popolari e assorbono i nuovi modelli imposti dal capitalismo, rischiando così una forma di disumanità, una forma di atroce afasia, una brutale assenza di capacità critiche, una faziosa passività, ricordo che queste erano appunto le forme tipiche delle SS: e vedo così stendersi sulle nostre città l’ombra orrenda della croce uncinata. Una visione apocalittica, certamente, la mia. Ma se accanto a essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare.»
Pasolini prefigurava negli Scritti Corsari le conseguenze dell’imposizione della società dei consumi. La lucidità e lungimiranza dell’autore sono proprie di un intellettuale capace di osservare i fenomeni del suo Paese con il necessario distacco, pur essendovi immerso. Il quadro risultante è sconfortante e tremendamente attuale, ma non privo di coraggio. Scritti Corsari è un appello alla capacità critica del lettore contemporaneo che, meglio di allora, può comprendere appieno il messaggio pasoliniano.