“È arrivato il momento di dire che il marito non è il proprietario della sua sposa”
Dipak Misral, presidente della Corte Suprema di Nuova Delhi, giustifica così la la sentenza emanata il 27 settembre, che prevede la depenalizzazione dell’adulterio.
La svolta è iniziata a partire dal ricorso presentato da Joseph Shine, uomo d’affari indiano che vive in Italia, il quale ha criticato la legge in quanto ingiusta per le donne, ma anche per gli uomini, poiché perseguibili penalmente in caso di adulterio e trattati quindi alla stregua di criminali per un atto che non può essere considerato un reato.
Questa decisione prevede in particolare l’abolizione dell’articolo 497 del codice penale indiano, risalente a circa 160 anni fa, quando l’India era ancora una colonia inglese. Secondo la vecchia legge, l’adulterio commesso da un uomo nei confronti di un altro uomo era un reato penale, punibile con cinque anni di reclusione. L’adulterio commesso da una donna invece non era nemmeno considerato dalla legge: la donna adultera veniva punita dal marito stesso o con una crudele pubblica condanna o con il ripudio. L’adulterio era considerato per legge:
“Rapporti sessuali avuti da un uomo con una donna sposata senza il consenso del marito“
Per questo alla moglie non spettava nemmeno il diritto di denunciare il marito adultero, solo il marito poteva denunciare l’uomo con cui la moglie lo aveva tradito.
Questa legge, benché antica, rispecchiava la società indiana fortemente patriarcale, in cui l’uomo è il pater familias, cioè colui che mantiene il gruppo famigliare sia da un punto di vista economico, sia procreativo: è infatti il padre che tramanda il nome della stirpe.
Il giudice della Corte suprema ha definito l’adulterio anticostituzionale poiché non rispetta l’articolo 21 della Costituzione, secondo cui:
“Trattare le donne con indignazione o discriminazione favorisce atteggiamenti negativi nei confronti della carta costituzionale”
La disuguaglianza tra uomo e donna è diventata anticostituzionale per un Paese che negli ultimi anni si è dimostrato sempre più aperto alla tutela dei diritti civili; bisogna infatti ricordare che nel 1954 la stessa Corte suprema aveva deciso di non cancellare la legge perché era comunemente accettato che il seduttore è l’uomo, non la donna.
Si è deliberato inoltre che l’adulterio non può essere un reato punibile penalmente, poiché non è da considerarsi la causa della fine di un matrimonio, ma la conseguenza.
Questo non è il primo provvedimento indiano volto alla difesa delle libertà individuali: l’India negli ultimi anni sembra sempre più rivolgersi verso un sistema progressista, sul modello di quello dei Paesi occidentali. Sta infatti provvedendo abolire quelle leggi da tempo considerate retrograde dai Paesi più sviluppati, ma che qui fino a poco tempo fa costituivano ancora la normalità.
Nell’agosto dell’anno scorso è stato proibito il triplo talaq, una procedura prima riconosciuta legalmente, secondo cui l’uomo poteva ripudiare la moglie solo pronunciando la parola talaq per tre volte. Il 6 settembre di quest’anno è stata inoltre depenalizzata l’omosessualità, in precedenza considerata reato da una legge di età vittoriana.
Il Paese sta compiendo passi da gigante per quanto riguarda la tutela dei diritti, in particolare quest’ultimo provvedimento risulta particolarmente importante per le donne indiane, tra le quali le più istruite hanno da tempo iniziato a reclamare le proprie libertà, seguite spesso da compagni e familiari uomini.
La vita delle donne in India rimane una delle più critiche a livello mondiale, soprattutto negli stati indiani più poveri. Se nate in una famiglia povera e numerosa, sin dai primi giorni di vita le donne indiane rischiano di non sopravvivere: le bocche da sfamare sono troppe e si considerano di certo solo quelle dei figli maschi. Le bambine vengono date in matrimonio dagli 8 ai 15 anni –il prima possibile, perché non siano più un peso economico– ovviamente non senza la dote che la famiglia d’origine deve al futuro marito: un’usanza ancora molto diffusa, benché abolita ufficialmente dal 1961.
Nemmeno la vita coniugale sarà rosea: sono spesso costrette a subire angherie e violenze per motivi vari, tra cui quello principale di una dote non sufficiente, per cui il marito può decidere anche di trovare un’altra moglie. Per una donna indiana vedova la situazione è forse ancora più difficile: nella migliore delle ipotesi viene allontanata dalla famiglia dello sposo, che prima la sostentava economicamente, ed è costretta a vivere di preghiera ed elemosina negli ashram; nei casi peggiori invece viene sottoposta alla sati –un dovere della donna secondo l’antico testo religioso Atharveda– ovvero bruciata viva sulla pira funebre del marito (spesso dopo essere state drogate o con la forza), pratica che è stata vietata in India nel 1829, ma continua ad essere praticata nei villaggi più poveri.
Si può solo immaginare la condizione delle donne Dalit, ovvero quel gruppo sociale che non è nemmeno considerato una casta, i cosiddetti impuri ed intoccabili costretti a vivere ai margini della società; queste sono doppiamente discriminate: perché donne e perché Dalit. Spesso l’unica soluzione per le donne delle caste più basse è la vita monacale: si convertono senza alcuna vocazione al cristianesimo, al jainismo o al buddhismo, cercando disperatamente una via d’uscita alla prigionia castale.
Una donna sopravvissuta fino al matrimonio non può comunque dirsi tranquilla, nonostante abiti in una delle città più evolute: gli stupri e le molestie sono numerosissimi, anche da parte delle stesse forze dell’ordine. Basti pensare che ogni 20 minuti in India avviene uno stupro, e un indiano su quattro ha ammesso di aver fatto almeno una volta violenza su una donna, la maggior parte per divertirsi, altri per punirla.
Ma a quanto pare qualcosa si sta muovendo per tutelare i diritti di queste donne. Possiamo dire quindi che le donne indiane stanno dimostrando un coraggio stupefacente: contrastano in ogni modo il sistema in cui sono cresciute per emanciparsi, rivendicando le proprie libertà; sempre di più frequentano l’università, trovano un lavoro e raggiungono risultati notevoli, alcune sono addirittura arrivate a ricoprire ruoli importanti in politica, molte di loro decidono di non avere figli per dedicarsi alla carriera.
Il vero problema rimane la contraddizione di un Paese in cui è enorme il divario tra stati molto poveri, dove questi recenti (ma anche meno recenti) provvedimenti non sono nemmeno conosciuti e le donne sono tuttora considerate alla stregua di oggetti, e stati economicamente progrediti, nei quali sta avvenendo il cambiamento, dove quindi i veti sulle retrograde leggi del passato vengono entusiasticamente rispettati e il livello di alfabetizzazione e di istruzione delle donne risultano assai elevati.
Queste nuove sentenze giuridiche sono condivise solo da una piccola percentuale della popolazione indiana altamente istruita, che si concentra nelle grandi città, mentre la maggior parte della società indiana che vive nei villaggi è povera, ignorante e molto credente: quindi è ancora fortemente legata alle vecchie leggi che riflettono il modello patriarcale in cui questa gente ancora si riconosce.
Il magazine Outlook India criticava in questo modo la rivoluzionaria depenalizzazione della omosessualità degli inizi di settembre:
“Come può essere garantita libertà agli omosessuali senza provvedere alla formazione degli agenti di polizia o di chi amministra la giustizia, affinché portino la depenalizzazione sul campo, rendendola concreta e facendo così in modo che due ragazzi dello stesso sesso possano vivere una relazione fuori dall’ombra? Difficile, se non impossibile, in un Paese dove nemmeno una coppia etero riesce a passeggiare in pubblico mano nella mano”.
La Costituzione indiana liberale, segno del progressismo indiano, contrasta fortemente con la diffusa religiosità superstiziosa, fatta di riti e credenze, e che spesso risulta essere più potente, quindi più rispettata, della legge stessa.
La mancanza di una consapevolezza politica e sociale crea l’enorme contraddizione: la popolazione più impegnata lotta perché vengano garantiti diritti e libertà che sono di fatto quotidianamente violati dalla stragrande maggioranza della popolazione.