Il giovane artista ciociaro dà voce alla sua generazione, intagliando nel marmo riferimenti alla contemporaneità con un tocco pungente e accattivante, ma al tempo stesso legato alla tradizione.
Jago, all’anagrafe Jacopo Cardillo, classe 1987, è un giovane scultore emergente. Un artista dal tocco michelangiolesco e dalla natura poliedrica, che media i suoi interessi tra musica, composizione e video-making. La sua materia di lavorazione è il marmo, che modella con sapienti mani donando ai suoi soggetti sfumature più che realistiche. Se nel mercato dell’arte, agli occhi delle vecchie generazioni, è un artista ancora poco conosciuto, nel mondo online dei social media, dove si presenta con il nome di Jago Artist, sta acquisendo crescenti apprezzamenti. Come afferma lui stesso:
«L’artista contemporaneo è colui che usa i mezzi di comunicazione contemporanei».
Nulla di più vero, se si pensa che anche Jackson Pollock sosteneva che un’opera d’arte debba essere figlia del suo tempo, una metafora epistemologica, specchio della realtà storica in cui viene creata. L’epoca vissuta da Jago è quella digitale, dove i social sono i nuovi strumenti di condivisione d’interessi e opinioni tra artisti e spettatori. Per questo il giovane scultore usa Instagram come medium di diffusione del suo messaggio. Condivide fotografie delle sue opere e offre ai suoi follower retroscena sorprendenti sulla composizione dei suoi lavori. L’artista sceglie di autorappresentarsi attraverso l’immagine della mano, come nell’opera Ego (2007).
«Io sono le mie mani, le mie mani sono la cosa che conosco meglio e lo strumento della mia conoscenza, se volevo dire qualcosa di me avrei dovuto realizzare una mano.»
La sua mano è come un pennello, un’estensione corporea che lo guida verso la manipolazione della materia secondo un’intenzione estetica. Attraverso il tatto lo scultore può percepire, sentire e infine dare libero sfogo al proprio inconscio creativo. Accarezzare la superficie della materia è come scavare interiormente alla propria anima, in modo da compiere un’indagine introspettiva, un’autoscoperta, come racconta l’opera La pelle dentro (2010). Questa volta l’artista decide di provare a scolpire la pelle, fare un passo avanti per dare alla sua mano un aspetto più realistico. È la prima volta che Jago sente un profondo senso di appartenenza con la sua opera. Ed è qui che, per la prima volta, interviene due volte sullo stesso lavoro.
La seconda volta avviene con Habemus Hominem un ritratto di Papa Benedetto XVI, realizzato nel 2009 e ritoccato nel 2016, dopo le dimissioni del Pontefice nel 2013. L’opera ha ricevuto l’onorificenza della Santa Sede “Croce Pro Benemerenti“, anche se un dettaglio ha lasciato di stucco il Vaticano: la mancanza degli occhi nel soggetto scolpito nel marmo bianco. Il richiamo agli occhi concavi è un tacito omaggio al ritratto scultoreo di Pio XI realizzato da Adolfo Wildt. Nel caso dell’opera del 2009 si tratta di un profilo oggettivo, realistico, rigido nell’espressione, in modo che potesse venire accettato. Ma il cambiamento del 2016 è stravolgente. Jago depriva il suo Pontefice di elementi superflui, spogliandolo di qualsiasi connotazione aggiuntiva in modo da rivelarne l’essenza. La veste papale viene abbandonata e ciò che rimane è un uomo nella sua semplicità. Come afferma lo stesso artista: «Dopo 6 anni, “Habemus Papam” divenne “Habemus Hominem”». Ciò che prima avvolgeva l’opera era un’armatura di marmo, che per la sua formalità non permetteva di cogliere l’individuo nella sua intimità umana. Tale trasformazione segna un passaggio definitivo nella poetica creativa di Jago, anche perché dopo il rifiuto di aggiungere gli occhi alla sua prima lavorazione del soggetto, l’artista ruppe qualsiasi forma di collaborazione con il Vaticano. Tuttavia il suo lavoro ricevette un ampio apprezzamento, tra cui spicca la voce di Vittorio Sgarbi. Il critico presenziò alla prima personale dell’artista, dove Habemus Hominem fu esposto dietro una parete, in modo da essere osservato solo dal buco di una serratura.
Ci sono poi altri progetti interessanti in cui l’artista si è saputo distinguere per l’accattivante simbiosi con l’attualità. Prima tra tutti l’opera Facelock (2016). Il riferimento immediato è al celebre social, la cui iniziale è stata ritrovata casualmente dall’artista nella forma di un morsetto. Da lì è iniziato un lavoro che ha come protagonista la scultura di un bambino con il volto piegato sullo smartphone e posizionato in cima a una pila di libri. Al di là di ogni possibile accusa di ipocrisia mossa contro l’artista perché criticherebbe un social che lui stesso largamente usa, Jago vuole invece promuovere un messaggio sull’uso consapevole dei social network. E lo fa anche sottolineandone gli aspetti negativi, nella considerazione di un medium che costituisce parte integrante dell’opera, per la sua capacità di attirare un ampio pubblico partecipativo. L’artista avvicina le persone con una ricetta vincente, fatta di pochi e semplici materiali da lavoro e di una grande sensibilità impressa nelle sue composizioni. Jago scava interiormente nella propria anima così come modella sapientemente prima l’argilla e poi il marmo.
«È nell’ultimo centimetro di lavoro che fai la differenza, è in quell’ultimo centimetro di possibilità che si realizza la scultura.» (Intervista su «Il Fatto Quotidiano»)
Jago procede dall’informe alla materia formata e plasmata con una forte personalità, che celebra i modelli del passato, ma al tempo stesso guarda profeticamente verso il futuro. L’artista racconta il contemporaneo con i mezzi affini alla propria epoca, sottolineandone pregi e difetti. Si fa promotore della generazione dei Millennials, valorizzando l’impegno e la costanza con cui giovani artisti si fanno strada nel nuovo panorama artistico. Vuole lanciare un messaggio universale, che abbia una valenza eterna e atemporale. L’universalità della sua narrazione comprende anche la possibilità di dare molteplici interpretazioni alle sue opere, che non si riducono necessariamente a un riferimento attualizzante.