Quanto sono accattivanti le pubblicità dei nostri amati smartphones? Quante volte desideriamo segretamente che il nostro cellulare si rompa per comprare l’ultimissimo modello del nostro marchio favorito?
L’uscita di un nuovo modello di cellulare, di tablet o computer innesca delle vere e proprie reazioni a catena che inducono un numero elevatissimo di consumatori all’acquisto e all’abbandono del dispositivo in uso perché considerato vecchio e “fuori moda” anche se, magari, è stato comprato solo pochi anni prima.
Nessuno si interroga sulle conseguenze del consumismo tecnologico, nonostante sarebbe sacrosanto prendere consapevolezza dei propri acquisti e del loro impatto sull’ambiente.
Il settore tecnologico è diventato il fulcro del consumismo più sfrenato. Nessuno nega la comodità dei nuovi dispositivi che, senz’altro, stanno contribuendo a semplificare la nostra vita sia dal punto di vista personale che lavorativo. Ma, a volte, è necessario guardare anche l’altro lato della medaglia.
L’acquisto compulsivo di nuovi dispositivi non solo ha come conseguenza un notevole alleggerimento del nostro portafoglio ma, contribuisce anche ad alimentare le discariche di rifiuti elettronici che stanno crescendo di numero e dimensione in ogni parte del mondo, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo che si stanno offrendo di accoglierli in quanto interessati alle materie prime (rame, ferro, alluminio) di cui tali rifiuti sono composti.
I nostri amati oggetti informatici si sono trasformati in oggetti di moda, di apparenza e, in alcuni casi, persino di vanto.
Ogni anno viene prodotto un nuovo modello di smartphone et similia, che introduce solamente qualche novità al software con un design leggermente differente al modello precedente ma con prezzi elevatissimi.
La cosa più sorprendente è che invece che vendere poco, ogni anno durante il giorno della premiere, si realizzano code chilometriche per acquistare i nuovi dispositivi; addirittura alcune persone si improvvisano esperti campeggiatori e pernottano la notte precedente davanti allo store così da essere i primi ad avere tra le mani il “nuovo gioellino”!
Ma, a volte -è proprio il caso di dirlo- non è sempre colpa nostra; infatti, molto spesso, abbiamo l’impressione di avere tra le mani un dispositivo fragile e dalla vita piuttosto breve. Ma come è possibile che uno smartphone pagato a volte quasi 1000 euro duri in media dai 3 ai 4 anni? Senz’altro a volte noi ne abusiamo, ma potrebbe esserci anche un’altra spiegazione.
Sempre più spesso al giorno d’oggi si sente parlare di obsolescenza programmata, ovvero una strategia tecnologica volta a definire il ciclo vitale di un prodotto elettronico in modo da limitare la sua durata e funzionalità.
Che vantaggi ne traggono i produttori?
Ovviamente limitando la durata dei dispositivi nel tempo si induce il consumatore a comprare nuovi prodotti con ritmi sempre più incalzanti, dando vita ad un sistema di consumo dove l’intervallo di acquisto tra un prodotto e l’altro è sempre più corto.
Il mercato sembra sempre di più creare prodotti esteticamente molto attraenti e costosi ma sempre più fragili che tendono a durare di meno, soprattutto una volta terminato il periodo di garanzia degli stessi. Ovviamente nessuno è nella condizione di accusare dal momento che le grandi multinazionali e i produttori sembrano sempre avere “il coltello dalla parte del manico”, ma possiamo basarci sulla nostra testimonianza in quanto consumatori abituali.
A chi non è mai capitato dopo qualche mese di utilizzo di osservare un crollo verticale della batteria del proprio smartphone, di doverlo portare da qualche esperto perché un nuovo aggiornamento aveva rallentato il sistema operativo o di doverlo farlo, addirittura, resettare?
Si tratta di sfortuna, coincidenza oppure di un caso di obsolescenza programmata?
Il caso di Apple e Samsung
Fa un certo effetto scoprire che i nostri marchi favoriti non sono molto ligi alla legge. L’AGCM (Autorità garante della concorrenza del mercato) ha multato Apple e Samsung per obsolescenza programmata.
Apple fu costretta a pagare 10 milioni per aver applicato all’Iphone 6 alcuni accorgimenti tecnici e strategici affinché il dispositivo iniziasse a “perdere colpi” dopo qualche anno e, il consumatore fosse costretto a sostituirlo. Samsung dovette pagare per lo stesso motivo 5 milioni dopo l’uscita del Note 4. La differenza delle pene dipende dalla gravità di condotta e dalle dimensioni delle aziende.
“I due colossi -secondo il comunicato ufficiale del Garante– hanno indotto i consumatori mediante l’insistente richiesta di effettuare il dowland e anche in ragione dell’asimmetria esistente rispetto ai produttori, ad installare aggiornamenti su dispositivi non in grado di supportarli adeguatamente, senza fornire adeguate informazioni, né alcun mezzo di ripristino delle originarie funzionalità dei prodotti.”
Apple sembra aver applicato questa subdola strategia nel 2016 inducendo i proprietari dell’Iphone 6/ 6 Plus/ 6s/6s Plus (introdotti nel mercato digitale nel 2014) ad installare il sistema operativo iOS 10 senza informare la clientela dei possibili inconvenienti che tale aggiornamento avrebbe potuto apportare al dispositivo. La cosa curiosa è che tutto ciò avvenne in concomitanza con il lancio dell’Iphone 7.
Come se non bastasse, Apple fu soggetta ad una seconda violazione nel Dicembre 2017 in quanto, dopo l’uscita degli Iphone 8 e X, non fornì ai consumatori alcune importanti informazioni sui nuovi modelli relativamente ad alcune peculiarità essenziali delle batterie al litio.
Da queste notizie si può notare come l’obsolescenza programmata non sia solo una semplice teoria cospirativa ma una vera e propria strategia di business.