Cesare Pavese, certo noto per i suoi romanzi, ha scritto anche numerosi componimenti poetici e ricordarlo soltanto per le sue prose sarebbe riduttivo. La sua maggiore opera poetica dal titolo Lavorare stanca ha una storia editoriale particolare. La prima difficoltosa pubblicazione contiene quarantacinque poesie e avviene nel 1936 per Solaria. Questa edizione è soggetta a provvedimenti da parte della censura fascista, sebbene non contenga espliciti contenuti politici. Gli emendamenti in questione furono invece presi a causa dei legami del giovane Pavese con gli intellettuali antifascisti dell’epoca, tutti legati proprio alla rivista Solaria. Il corpus viene inoltre arricchito, risistemato e modificato nel corso delle edizioni dell’opera, che nel panorama poetico di quegli anni rappresenta una totale innovazione. Una seconda edizione si ha nel 1943 ed è pubblicata per Einaudi; i componimenti qui presentati sono settanta. In questa seconda versione le poesie sono suddivise in sei sezioni, che prendono il titolo da alcune liriche contenute nella raccolta.
I temi principali dell’opera sono sicuramente numerosi. Preponderante è quello che vede contrapposta la dimensione rurale, simbolo dell’infanzia, a quella cittadina, emblema delle difficoltà dell’età adulta. Inoltre emerge spesso nella raccolta, così come nell’intera produzione letteraria di Pavese, il tema dell’impossibilità della comunicazione che porta l’uomo a un’inevitabile solitudine, sua compagna inseparabile durante l’intero percorso esistenziale. Altri temi trasversali sono quello dell’amore, trattato anche nel suo aspetto più carnale, e dell’impegno sociale e politico. Tutte le tematiche vengono di volta in volta declinate nelle diverse sezioni.
Nell’opera emerge l’influenza della letteratura anglo-americana, in particolare quella di Walt Whitman. Il legame di Pavese con la letteratura nordamericana fu forte lungo l’intero arco della sua vita. Il giovane Cesare leggeva spesso le poesie di Whitman, che lo accompagnarono per tutta l’adolescenza, tanto da portarlo poi a dedicargli un’approfondita tesi di laurea. In particolare è possibile stabilire un legame tra l’opera del poeta americano Leaves of Grass e quella di Pavese, che attinge sicuramente al modello di Whitman sia per tematiche trattate sia per quanto riguarda le scelte stilistiche. Infatti il metro adoperato da Pavese è quello del verso libero, un verso che negli anni diventa sempre più metodico e ragionato, tanto che è possibile individuare una sorta di schema metrico e una cadenza che il poeta stesso descrive così: «ritmavo le mie poesie mugolando». L’intento è quello di proporre una poesia diversa, libera dagli schemi tradizionali, proprio come dimostra il componimento sopra citato, dai vincoli della metrica e dagli artifici retorici, una poesia pura che riporti la realtà delle cose, certo non scollegata da un intento etico.
Uno dei componimenti censurati e contenuti nella raccolta ci dà inoltre l’occasione di scoprire un Pavese nuovo e inedito, diverso dal narratore di vicende partigiane che tutti noi siamo soliti ricordare: si tratta de Il dio-caprone. Ci viene qui proposta e descritta una sessualità selvaggia ed emerge il lato più bestiale dell’uomo. Scrive infatti l’autore: «Ci son capre che vanno a fermarsi / sulla biscia, nell’erba, e che godono a farsi succhiare. / Le ragazze anche godono, a farsi toccare». Una brutalità spiazzante ma al contempo poetica e armoniosa, che si presta a una lettura nuova e diversa di un autore che riscopriamo qui in tutta la sua istintività. Nel componimento ci appaiono di strofa in strofa immagini sempre più crude con l’alternarsi di vicende umane e vicende animali, il tutto pieno di allusioni esplicitamente sessuali: vediamo comparire dapprima la capra, seguita poi dall’evocazione di una biscia e infine quella di un “cagnaccio”. Entrambe le bestie citate vengono poi utilizzate dal poeta per rievocare l’accoppiamento e il godimento. Questa poesia, insieme a Pensieri di Dina, Balletto e Paternità (anch’esse censurate), colpisce il lettore per la schiettezza usata nel descrivere il sesso. Rappresenta infatti un’innovazione non solo nella poesia di Pavese ma anche nel panorama poetico italiano di quegli anni.
La vocazione narrativa di Pavese certo non scompare. Egli stesso definisce questa raccolta come un poemetto tra psicologia e cronaca, in cui la prosa narrativa viene usata per fornire paesaggi e ritratti umani che talvolta si incrociano tra loro, si mescolano e forniscono al lettore delle immagini concrete, degli squarci sul mondo, talvolta sono crudi e spietati, proprio come quello del dio-caprone che possiede le ragazze nella notte. Pavese è infatti attento alla miseria, alla sensualità, alla malinconia dei suoi soggetti, non appesantiti da questa loro umanità, messa così in rilievo in tutta la sua semplicità, una semplicità che con l’ampliarsi della raccolta si fonde sempre più con scenari fantastici e atmosfere rarefatte.
La sperimentazione poetica e le tematiche proposte, unite alla capacità di Pavese di raccontare il mondo, rappresentano forse uno dei tratti più affascinanti della raccolta, che vale sicuramente la pena di essere letta, anche solo per comprendere meglio il mistero di un uomo, Cesare Pavese.