Negli ultimi decenni si è assistito all’impennata del fenomeno del consumismo. Indubbiamente la strategia dei marchi di fama ormai internazionale ha fatto perno sul quadro di crisi generale che obbliga le masse a rivolgersi alle realtà il più possibile aperte alle esigenze della moltitudine (dettate fondamentalmente alle disponibilità economiche). Dietro l’istanza di compromesso tra necessità ed economicità si rivelano presto zone d’ombra: l’attenzione dei consumatori, rassicurati dall’accessibilità ai beni di prima necessità, viene decentrata verso ciò che non risponde alle impellenze del quotidiano. Qui risiede, dunque, la radice del consumismo: appagare i bisogni primari dei consumatori ma, al contempo, crearne di nuovi. Si rileva dunque nel consumismo il ruolo, esteso sul piano mondiale, di progettazione di un’impronta sociale.
Ciò ha inevitabilmente implicato una ridefinizione del rapporto con gli oggetti. Questi ultimi, rispetto al fenomeno consumistico, hanno assunto un’accezione negativa, presto ricondotta nella rosa degli -ismi: il concetto di materialismo ascrive, appunto, alla materia un connotato di superficialità; e si definisce come ricerca di appagamento di esigenze inautentiche e indotte. Proviamo a osservare, attraverso le epoche e le culture, i mutamenti subìti dal rapporto tra l’uomo e l’oggetto.
Mana è il nome con cui le popolazioni della Polinesia e della Melanesia si riferivano a una forza spirituale (capace di produrre bene e male) insita in ogni cosa. Nonostane tale credenza fosse nota agli antropologi già dal termine del XIX secolo, è al nome di Bronislaw Malinovski e Marcel Mauss che essa è notoriamente associata.
Gli studi di Malinovski e Mauss, benché condotti autonomamente, volsero in particolare l’attenzione al rituale del dono istituito tra le isole dell’arcipelago polineasiano. Alla dinamica del rito sovrintende un’obbligatorietà dovuta alla qualità intrinseca dell’oggetto scambiato. Per tale ragione la trasgressione del legame suggellato dal dono è suscettibile di vendetta da parte della forza (hau) che deriva all’oggetto da chi lo ha donato. Questo equilibrio di forze spirituali che lega in un rapporto di debito il destinatario al donatore dev’essere restaurato ricambiando il gesto (il rituale si articola quindi secondo lo schema dare-ricevere-ricambiare). È ben evidente come, nelle pieghe della formalità occidentale, al di là delle questioni di etichetta, si annida una più complessa espressione dell’umano.
Fenomeno simile riguarda quello discusso dall’antropologo James Frazer nel suo celebre saggio Il ramo d’oro (1915). L’opera si prefigge di indagare i culti legati a un albero che campeggia nel bosco di Diana a Nemi (Ariccia). Una delle versioni sulle quali Frazer si sofferma riguarda la figura del rex nemorensis (re della foresta), il quale suggellava la propria carica (acquisita uccidendo il predecessore) legando la sua anima a un ramo dell’albero suddetto. Spezzare il cosiddetto ramo d’oro sarebbe equivalso ad annientare l’anima del re.
Se il ricorso al mana (e a dispositivi affini come i rituali, i totem e i feticci) verteva a scongiurare le potenze della natura, affinché la fragilità del mondo umano non vi soccombesse, esso al contempo istituì quella sensibilità peculiare delle popolazioni del Sol Levante che, in una forma viepiù attenuata, evolse in un rapporto armonico col mondo fenomenico. Alla base di una simile relazione con gli “oggetti” è dunque un profondo apprezzamento per la materia: attraverso ogni gesto (finemente ritualizzato) l’individuo infonde, negli oggetti che abitano il suo quotidiano, il proprio essere, come una carica di energia che circola connettendo ogni manifestazione animata e inanimata della materia. In ragione del rispetto del “flusso vitale” che permea i fenomeni – definito dai cinesi Qi (Ki in Giappone) – i popoli orientali strutturano la propria caratteristica interazione con gli oggetti. Molto interessante il motivo mitologico giapponese dello tsukumogami (anima delle cose, del quale ne esistono numerose epifanie) che, in relazione a come l’oggetto è stato trattato nel corso della sua esistenza, sarà benigno o, piuttosto, maligno. Onde prevenire ritorsioni degli spiriti malevoli, la tradizione nipponica prescrive di congedarsi dagli oggetti vecchi e inutilizzabili con grande rispetto per il loro operato. Citiamo come emblematico il funerale che, a Kyoto, viene celebrato annualmente per onorare gli aghi da cucito rotti.
Poiché informata in misura determinante dalla tradizione greca, non desta stupore che la cultura europea abbia riletto i contenuti della civiltà orientale in senso più drammatico. Nel seno della Seconda rivoluzione industriale, il pensiero di Karl Marx focalizzò problematiche di ordine esistenziale sotto la luce del sedicente capitalismo.
Marx interpretò il materialismo come la proiezione dell’individualità nel mondo oggettuale, alienazione, trasfusione della propria essenza nella merce (o in Dio, nel caso del sentimento religioso). Tale rapporto di subordinazione implica un rovesciamento dei ruoli tra individuo e materia. Il marxismo nasce quindi come progetto umanistico che mira a districare l’uomo dalle strutture economiche e religiose perché possa riappropriarsi della sua essenza e acquisire piena autoconsapevolezza. Laddove, però, Marx aveva denunciato l’alienazione dell’esistenza dell’operaio nell’oggetto fabbricato, lo scenario del fenomeno di massa sposta l’attenzione sul versante opposto: il punto di vista dell’oggetto. La produzione in serie (contrassegno del consumismo) comporta la caduta dell’unicità dell’oggetto, di fronte alla quale l’individuo non ne teme la perdita, consapevole di poterlo sostituire con un esemplare affatto identico. Da una comparazione del fenomeno del consumismo con le nozioni di mana e qi, ci si accorge di come esso abbia innescato un meccanismo esattamente inverso. Il presupposto diviene conseguenza: lo spirito vitale che abita i fenomeni perde il suo valore causativo; l’attribuzione di un senso all’oggetto avviene collateralmente, ossia per giustificarne il possesso (a scanso dell’effettiva inutilità). Per definizione, un bene di consumo prescinde dal coinvolgimento della sfera spirituale; esso non si radica nell’esistenza individuale, si presta piuttosto a un impiego meramente funzionale (la comune formula usa-e-getta dissacra completamente l’oggetto in questione e l’utilizzo che se ne fa).
La nullificazione del valore peculiare degli oggetti è quindi una conseguenza del consumismo, che può ampliarsi al più esteso campo del patrimonio materiale.
Walter Benjamin, nel suo saggio più celebre, palesò l’apprensione e l’insofferenza per quel fenomeno che egli denominò perdita dell’aura. La nozione di aura riassume la dimensione di unicità e autenticità dell’oggetto.
<<Che cos’è propriamente l’aura? Un singolare intreccio di spazio e tempo: apparizione unica di una lontananza per quanto vicina essa possa essere.>>
Il fenomeno della riproducibilità tecnica slega l’oggetto – e la percezione – dall’hic et nunc, laddove, invece, la trasmissione di un’eredità culturale poggia sulla permanenza. L’individuo dell’era consumistica ha disimparato il rapporto con gli oggetti, il senso delle cose viene conferito in seconda battuta. Tuttavia non si può additare solamente il consumismo: a giocare un ruolo fondamentale è lo scarto tra l’età infantile e quella adulta. I bambini stabiliscono infatti un rapporto affettivo più intenso coi propri oggetti (basti pensare al più classico peluche col quale i bambini interagiscono, spesso dedicandogli cure materne). Gli esempi riportati nel corso dell’articolo testimoniano di sistemi di pensiero notoriamente restii alla scissione; si può interpretare quindi il rispetto tributato agli oggetti come tentativo di creare una continuità (costruttiva, non patologica) col proprio passato.
Quant’è vero che, nell’infanzia, ciò che si sa può valere molto più di quanto si impara nel corso degli anni.
FONTI
Enciclopedia Garzanti, 1993
G.C. Calza, Stile Giappone, Einaudi, 2002
U. Fabietti, Storia dell’antropologia, Zanichelli, 2011
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, BUR, 2013
IMMAGINI
Copertina – A. Warhol, 32 Campbell soup cans (1962), polimero sintetico su tela, MoMA