Cinico, divertente, violento, scandaloso: sono alcuni degli aggettivi che descrivono il cinema di Álex de la Iglesia, uno degli autori più eclettici e irriverenti del moderno cinema iberico.
Nato a Bilbao nel 1965, De la Iglesias cresce con la passione per il cinema e i fumetti. Si laurea in filosofia all’Università di Deusto, ma il suo vero amore non lo abbandonerà mai. Determinato e sfrontato, Álex riesce a farsi strada nel mondo cinematografico, fino ad arrivare a Pedro Almodovar. L’icona del cinema spagnolo post franchista coglie il talento di quello che, da lì a poco, diventerà la voce fuori dal coro di un modello narrativo ormai troppo uguale a se stesso.
La Spagna, infatti, ha bisogno di vedere altro, certo i film che seguono la scia almodovariana non possono che continuare a emozionare, ma De la Iglesia farà di più.
Nel 1995 dirige Maria Grazia Cucinotta ne El dìa de la bestia, guadagnandosi il premio Goya come miglior regista, mentre nel 1997 potrà contare sull’interpretazione di Javier Bardem in Perdita Durango. Gli anni seguenti vedranno la luce i film Muertos de risa, La comunidad,e Crimen perfecto: commedie nere caratterizzate da un’ironia grottesca.
Con questi primi lavori si afferma una personalità registica unica, che a tratti ricorda i genitori dei primi noir d’oltreoceano, ma che sconvolge per la capacità di rompere i tabù, fregandosene del “politicamente corretto”, senza cadere nel volgare. La poetica appena descritta raggiungerà l’apice in Ballata dell’amore e dell’odio, presentato in concorso nel 2010 alla Mostra del cinema di Venezia, con il quale vincerà il Leone d’Argento per la miglior regia.
Siamo ai tempi della Guerra Civile Spagnola: un clown viene reclutato a forza dalla Resistenza e poi fatto prigioniero dalle truppe del Caudillo. Suo figlio Javier, che già aveva perso la madre, si ritrova solo, spronato dal padre a farsi beffe del suo triste destino attraverso la vendetta. Quel bambino lo ritroviamo, adulto, negli anni Settanta, poco prima della morte di Franco. Convinto d’intraprendere la carriera del padre in un circo decadente, Javier incontra Sergio, il pagliaccio cui farà da spalla, in realtà uomo violentissimo e prevaricatore. I problemi nasceranno quando Javier s’innamorerà della bellissima Natalia, la trapezista fidanzata di Sergio che, a modo suo, lo sedurrà: questo triangolo amoroso avrà conseguenze devastanti.
Uno storia insolita, che incuriosisce già dai primi attimi: una favola dai toni cupissimi, che con il trattamento violento dei corpi e delle menti dei suoi protagonisti vuole raccontare i danni subiti dalla società prigioniera del franchismo. Quella di De la Iglesia è un’ambizione non da poco, che riesce bene nel suo intento, seppur la connessione con il dramma storico non sia immediatamente percepibile: tutti i personaggi, anche i più sfumati, sono assaliti da qualche disturbo, che sia rabbia, frustrazione o pura rassegnazione, dovuti a uno degli eventi della storia umana la cui atrocità rimarrà senza spiegazione.
Ed è proprio l’incapacità di trovare un senso che il regista basco sembra palesare, rompendo le generiche idee sulle relazioni, facendo fare salti mortali alle vite dei suoi personaggi, sempre in bilico sulla sottile linea che separa la vita dalla morte.
Non solo nel capolavoro appena descritto, ma l’espressione di un mondo impensabile attraversa tutta la narrazione di Álex de la Iglesia, completamente aldilà degli stereotipi di sesso, amore e religione (in questo caso ai limiti della blasfemia).
A mio parere non esiste nulla di innovativo nel cinema, tutto quello che vedete proviene da esperienze personali del cineasta e da quello che ha visto, sentito e vissuto nella sua vita, quindi tutto deriva da qualcosa che è già esistito prima. Mi piace usare la metafora del barman, noi registi questo siamo, dei preparatori di cocktail che a seconda della bravura riescono più o meno bene a combinare gli elementi al fine di realizzare un prodotto equilibrato e soddisfacente
Questo quanto dichiarato dal regista in un’intervista dopo la presentazione di Le streghe son tornate al festival di Roma del 2013. Una dichiarazione che fa quasi sorridere, essendo il suo cinema l’antitesi dell’equilibrio.