Mia madre dichiarava sempre di essere convinta che l’origine di tutti i miei problemi di insicurezza e di depressione fosse il fatto che, da piccolo, non riuscivo a camminare per dieci metri senza inciampare nei miei piedi. Per quanto ci provassi e ritentassi, non riuscivo a posizionare le piante dei piedi in maniera diritta, e quindi cadevo. Una volta, due volte, tre volte, quattro volte, cinque volte… fino a che un profondo senso di inadeguatezza mi si appiccicò addosso, pronto ad avvelenare ogni giorno della mia vita. E non solo.
A poco servirono le scarpe ortopediche per correggere il difetto. Secondo mia madre, ormai il danno era fatto, e io ero bruciato. No, non è corretto affermare che lei lo pensasse davvero. Diciamo che è una mia logica conseguenza. Il dado era tratto, c’era poco altro da fare. Anche se con le scarpe ortopediche riuscivo finalmente a camminare senza finire gambe all’aria ogni cinque secondi, ormai vedevo in ogni spigolo del mondo un pericolo mortale e in ogni nuova impresa da compiere obbligatoriamente per passare alla successiva fase del mio sviluppo infantile un mostro troppo grande da affrontare.
No, in realtà, nemmeno questo è del tutto vero. O, meglio, lo è, ma allo stesso tempo non ero così tutto il tempo. La mia fervida immaginazione, ancora più sbrigliata rispetto il normale perché ero, appunto, solo un bambino, pesantemente condizionata dalle storie lette la sera, prima della buonanotte, e dalla miriade di filmacci Disney che guardavo ossessivamente per tutto il giorno, mi aveva pesantemente corroso dentro. C’erano momenti in cui credevo di essere onnipotente, o quasi. Certo, nella mia testa non avevo la più pallida idea di che cosa volesse dire quella parola, onnipotente… Ma ricordo perfettamente la sensazione, quella di essere in grado di fare qualsiasi cosa.
Scalare montagne, arrampicarsi sugli alberi, tirare di scherma, anche volare in alto, fino all’Isola che non c’è… Il mio corpo era giovane, teso e vibrante di energie che chiedevano soltanto di essere liberate. Sentivo quell’adrenalina scorrermi nelle vene quando sentivo leggere le storie dei supereroi, o quando guardavo i cartoni alla tv. Li imitavo, i cartoni. Gironzolavo per la casa con il telecomando in mano, fingendo che fosse una carota. Mi mettevo in testa il cerchietto di cartoncino che mia sorella aveva utilizzato a carnevale l’anno prima, pieno di lingue rosse che erano le mie orecchie.
Quella finzione plasmava il mio corpo o, meglio, la mia identità. Dal momento che fingevo di essere straordinario, di avere dei super poteri, di riuscire a correre e a saltare e a volare, qualcosa nel mio cervello si convinceva davvero di esserlo. Di essere destinato a grandi cose, come i personaggi dei film. Grandi cose e grandi responsabilità, non era così?
Ecco, quello che ho appena detto è in aperta contraddizione con tutto il resto. Come potevo credere di essere tanto speciale se poi, a conti fatti, avevo paura di tutto? Non riuscivo a scendere dagli scivoli senza che un terrore cieco si impadronisse di me, completamente. Mio padre, che spesso era l’addetto a questo genere di cose, si arrabbiava con me. Mi ricordo la sua voce, mentre sentenziava perentorio che dovevo superare le mie paure. Buttarmi. Non sarebbe successo niente. Eppure quell’altezza, così piccola a vederla ora, mi dava una vertigine senza fondo.
Dicevo, come può la paura coesistere con questi sentimenti? In qualche modo, ero sia l’una, sia l’altra cosa. All’inizio, almeno. Dev’essere andata così: quello che è cominciato mentre cascavo a terra e battevo i denti sul cemento impolverato era un seme piantato dentro, che coesisteva con il mio sentimento di onnipotenza. Crescendo, quel seme di terrore e insicurezza si è sviluppato, prosciugando ogni cosa fino a conseguenze estreme.
Il mio ego infantile e smisurato ha cominciato a incrinarsi mentre correvo. Non ricordo nient’altro, se non che correvo nel salone della scuola materna dove potevamo trascorrere gli intervalli giocando anche con i bambini delle altre classi. Ricordo che il pavimento era di linoleum lucido, e infatti a stare scalzi si rischiava di scivolare, perfino se si indossavano le calze antisdrucciolo. Correvo verso la porta della mia classe, perché stavo facendo una gara con la mia fidanzatina. Ci eravamo già baciati in bocca e, come ogni maschio che si rispetti, dovevo correre più veloce di lei. Era necessario correre più veloce di lei.
Oggi, negli accesi dibattiti pro famiglie gay o versus famiglie gay, si parla sempre della sensibilità dei bambini, dei giochi per i bambini, della necessità di smettere di inculcare loro fin dalla più tenera età le rigide norme su che cosa sia il maschile e il femminile, che cosa sia amore e cosa aberrazione… Dicono che i bambini nascono neutri, senza nessuna idea preconcetta. Probabilmente è vero, e lo dico anche io. Sono il più strenuo sostenitore dei diritti civili, senza se e senza ma. Eppure, non ho mai confessato a nessuno che già a quattro anni ero un bambino sessista e, nonostante tutto, anche un po’ razzista. Certo, forse non era colpa mia, ma delle robe che guardavo, dei discorsi che sentivo. Dell’imperativo categorico di giocare con macchinine e pupazzetti di supereroi e di disgustarmi alla vista di Cenerentola.
Comunque, a quattro anni avevo già una visione delle cose piuttosto definita, e cioè che dovevo arrivare per primo, vincere la corsa. Altrimenti non ero davvero onnipotente. Altrimenti non ero un vero maschio. Ce la mettevo tutta, prendevo tutta l’energia che sentivo ribollere dentro e la riversavo in quei muscoli paffuti, che dovevano correre; nelle braccia che dovevano scandire il ritmo.
Devo davvero dire chi dei due ha vinto, o si capisce già così?
Probabilmente non è stato nemmeno il primo episodio, né l’ultimo di una lunga serie. Ma è l’unico che ricordo, forse perché la frustrazione della perdita mi si impresse dentro come un marchio, insieme alla consapevolezza che il corpo, il mio corpo, non funzionava come doveva. Aveva qualcosa che non andava se io volevo correre più veloce, e ce l’avevo messa anche tutta per farlo, e Giada mi aveva battuto, senza alcuna fatica. La ricordo con i suoi pantaloncini grigi, di quel tessuto strano che sembrava una versione tarocca del velluto, ma era molto caldo, perfetto per le stagioni fredde. Forse era inverno.
La ricordo dietro di me, e poi le sue gambe magre che mi superano, ricordo la forza che ho impresso nelle cosce per andare più veloce, e le sue scarpette bianche e rosa, da ginnastica, che sfrecciano sul linoleum. Quello che non sapevo fosse ancora un metro, due metri… Come contavo la distanza, prima di sapere come misurarla? La vedo appoggiarsi allo stipite della porta, non ansima nemmeno tanto. Il suo sorriso è beffardo, quello della vittoria.
E questo corpo che non funziona, non ha mai funzionato. È il primo ricordo che ho, dell’inadeguatezza del mio corpo. Lì ho fissato l’origine del mio odio. Il resto, poi, è solo una lunga serie di ripetizioni dello stesso copione, non è necessario raccontarla. O forse sì? Ma cosa cambia? Nulla.
Una volta volevo scalare uno scoglio, mi sentivo in grado di farlo, ma avevo paura che il mio corpo facesse nuovamente cilecca, e così rinunciai all’impresa. Così come rinunciai a imparare ad andare in bicicletta, o in motorino. Qualunque cosa abbia a che fare con il mio corpo, io l’ho messa via, etichettata come impresa impossibile, morte certa. Quella paura ossessiva del dolore, che proteggeva il mio corpo come un guanto soffocante.
Un corpo che non eseguiva gli ordini. Quando un corpo non esegue gli ordini, o li esegue male, si comincia a percepirlo come protesi estranea. È come se si invertisse il processo: solitamente ti amputano un arto, metti la protesi e i primi giorni la vedi come un’appendice indesiderata e insensibile che non sai come controllare. Poi, passano i giorni, i mesi e gli anni, e alla fine diventa parte integrante del corpo. Il corpo la assimila, la ingoia e la mastica, ed ecco che anche se non è ricoperta della tua carne, tu la percepisci come tale.
Ecco, a me è successo l’esatto contrario: lentamente, ho cominciato a percepire tutto il mio corpo come una protesi estranea, ingombrante. Più ne divenivo consapevole, più i miei gesti diventavano goffi, innaturali. Percepivo il mio corpo come qualcosa di enorme, più esteso del normale; qualcosa di molto difficile da nascondere. Come nascondere un’entità che non puoi gestire? Che è capace di allungarsi e ritrarsi a proprio piacimento?
Quanto alla mia immaginazione, non veniva affatto scalfita dalle mie deludenti esperienze: se con gli occhi della mente mi guardavo allo specchio, mi vedevo diverso. Mi riconoscevo, ero io. Avevo sempre gli occhi grigi, il naso un po’ schiacciato e la bocca carnosa. Il neo sul braccio sinistro e la cicatrice a forma di boomerang sulla spalla. Però ero più bello, insomma. Più attraente. Ero la versione migliore di me. Così, quando poi mi guardavo allo specchio davvero per lavarmi la faccia e i denti, un po’ ci rimanevo male. Sempre occhi grigi, naso schiacciato, labbra carnose. Però le guance paffute gonfiavano la faccia, il mento era eccessivamente pronunciato. Le occhiaie, poi, mi facevano impazzire.
Ecco un altro mito che gli adulti hanno dei bambini. Cioè, non dico che non sia vero, semplicemente nel mio caso non poteva trovare applicazione. Dicono sempre che i bambini, specialmente i maschi, se ne freghino del loro aspetto. Oltre lo stereotipo del maschio che trasuda virilità e brutalità, intendo. Dicono che le femmine sono ossessionate dal loro aspetto, perché vengono sessualizzate fin da bambine, abituate a essere sempre perfette e a somigliare a creature a metà tra l’etereo e l’androgino. Delle specie di entità prive di difetti e dunque di qualunque umanità, e tuttavia capaci di stuzzicare l’eros maschile.
Ecco, quel che dico io è che anche da bambino mi facevo paranoie simili. Non credo fosse qualcosa annesso alla questione dei ruoli di genere e della pressione sociale affinché li performassi, quanto più al discorso sul corpo che facevo prima, cioè il fatto che nella mia testa mi percepivo in un modo, ma l’immagine del corpo che lo specchio mi rimandava indietro era un’altra, diversa. È come quando ho fatto quella stupida gara: credevo che il mio corpo fosse in un modo, e invece era in un altro.
Questa scissione, come dicevo, mi ha portato a percepire tutto il mio corpo come una protesi estranea. In quanto estranea, non mi obbediva, e per questo la odiavo. Cosa fanno i bambini, o i ragazzini, con qualcosa che odiano, e che tuttavia non sanno comprendere? Semplice. Lo distruggono. Io ho iniziato con il metodo più facile, anche perché era il più inconsapevole di tutti. Dato che mi sentivo a disagio con il mio corpo, lo sentivo una strana appendice pulsante sconosciuta, ho deciso di non usarlo.
All’inizio, era un modo per sopravvivere. Dal momento che ero terrorizzato da tutto, e specialmente dall’eventualità di non riuscire a controllare il mio corpo, evitare il più possibile situazioni pericolose, in cui mettere alla prova le mie capacità fisiche non era solo un capriccio, piuttosto una necessità vitale. Per cui, se si decideva di giocare a pallavolo, diligentemente svolgevo il ruolo dell’arbitro. A palla prigioniera, preferivo osservare. I miei compagni di giochi non se ne lamentavano, dal momento che ero l’unico giocatore in grado di determinare in negativo l’esito di qualunque partita.
Come ogni cosa, però, il frequente inutilizzo mi portò a una degenerazione profonda. Infatti, se inizialmente la rinuncia si applicava agli sport o alle escursioni, in seguito la cosa divenne molto più pervasiva. Che fare, infatti, se mentre parlavo durante un’interrogazione di storia i muscoli della mia faccia avessero rifiutato di muoversi? Come avrei potuto cavarmela se, durante una pomiciata, la mia lingua avesse smesso di funzionare come doveva e avessi avuto, per esempio, un attacco acuto di ipersalivazione?
Tuttavia, non mi era concesso smettere di vivere, sebbene volessi nascondere il più possibile quella strana creatura che ero dagli sguardi altrui. Inventai dei modi per esistere senza dare troppo nell’occhio: evitare di corteggiare qualunque ragazza, evitare movimenti bruschi che potessero farmi perdere l’equilibrio, parlare lentamente in modo da avere il tempo sufficiente per articolare in maniera corretta ogni suono.
Contemporaneamente, la mia mente viaggiava su binari alternativi. Non era difficile per me immaginare di avere un altro corpo, funzionale e adatto alle mie esigenze, di vivere in un altra dimensione, dove non ero il sociopatico depresso in cui mi trasformavo giorno per giorno. Il senso di onnipotenza permaneva, ma veniva traslato su piani che potevo controllare a prescindere dal mio corpo, cioè quelli intellettuali. La logica, il pensiero erano i miei elementi: qui potevo riversare ogni energia che non avevo dato al corpo da consumare, l’intera frustrazione per la mia condizione, la vitalità della mia giovinezza. Pensavo, ragionavo e lo scrivevo. Ero uno studente modello, ovviamente. I miei professori e i compagni mi reputavano un po’ introverso, ma straordinariamente intelligente. Io, invece, continuavo a odiarmi.
Ripensandoci, forse non è troppo corretto asserire che io mi odi. Cioè, mi odio nella misura in cui detesto con tutte le mie forze questo corpo che mi contiene, perché è l’unico mezzo che ho per stare al mondo ed è così finito, imperfetto, difettoso. Odio questa pelle che mi ricopre perché non la percepisco come strumento per esistere, quanto un limite posto alla mia possibilità di vivere. Si potrebbe pensare che io ci abbia fatto il callo, a vivere altrove. Vivere nella mia testa, nelle mie immaginazioni, lasciando il corpo in una immobilità quasi totale.
Non è così. Tutto ciò che vorrei è correre. Afferrare, toccare, baciare, penetrare, leccare, godere, gemere, urlare, soffrire, ferirmi. Ma questo corpo non può farlo. Prima non l’ho detto, ma il secondo modo per distruggere il corpo è mangiare. Tanto, e cose che alzano la pressione, tolgono il respiro, rallentano la circolazione nei vasi sanguigni. Così ho dipinto su me stesso il mio odio. Guardo il mio corpo, e mi dico che gli ho tolto qualunque possibilità di vivere: l’ho plasmato in modo che fosse assolutamente oltre i limiti di ciò che la società considera desiderabile, o anche lontanamente accettabile. Sono così grasso da essere repellente anche per i miei familiari, e non mi rimangono che pochi capelli in testa. Ho problemi di eccessiva sudorazione, probabilmente dovuti agli enormi strati lipidici che mi avvolgono. Ha un sacco di funzioni, il grasso.
La prima, è quella di proteggermi dalla tentazione di sperimentare il mio corpo. Ciò potrebbe rivelarsi dannoso, se non mortale. La seconda, è quella di impedire agli altri, le cosiddette persone normali, di approcciarsi a me, perché il pericolo sarebbe quello esposto al punto uno. La terza, è la più grande manifestazione del mio odio. Potrei continuare per secoli, se non temessi di risultare noioso.
Nonostante tutto, la mia indole, come forse ho accennato sopra, è quella di essere un depresso. Certo, avere un corpo difettoso non è poi una cosa di cui essere felici, anche se la propria vita interiore è piuttosto attiva. So che molti, se leggessero queste righe, penserebbero che sono un ingrato. Tutto questo odio, tutta questa depressione soltanto perché sono stato battuto in una gara di corsa da una ragazza? Non sono un po’ ridicolo?
Certo, probabilmente. Il mio problema, dopotutto, nasce dalla scissione tra i miei desideri e la realtà dei fatti. Dalla contraddizione insita nella mia vita interiore indomita e il mio corpo, caduco come gli altri, se non di più. Forse, la mia non è una disfunzione fisica, piuttosto un difetto di immaginazione. Qualcosa che, durante il processo di costruzione della mia identità cosciente e della mia identità fisica, è andato storto. Probabilmente sono stato amato troppo. Tutto quell’affetto mi ha caricato di promesse, che poi la realtà, e il mio corpo in primis, non hanno mantenuto.
Eccomi alla terza modalità di distruggere il mio corpo, e cioè i tagli. È iniziato tutto un giorno, andavo ormai all’università e faceva freddo, me lo ricordo perché ero disgustato dai peli neri rizzati come chiodi intorno ai miei capezzoli. Comunque, mi facevo la barba, se barba si può chiamare quella peluria rada che mi chiazzava (letteralmente) le guance e il mento.
Mi facevo la barba e con il rasoio mi tagliai appena sopra la curva sinistra del labbro. Un fiotto di sangue uscì, caldo, il sapore di ferro mi invase la lingua. Non è che sentissi molto il dolore, piuttosto sentivo un grande senso di liberazione. Provai di nuovo, questa volta dietro l’orecchio, in un posto dove difficilmente avrebbero potuto notarlo. Non potevo vedere l’opera, però sentivo il calore del sangue sgocciolare sulle spalle. Dovetti correggere la mia prima impressione. Non soltanto sentivo una sorta di liberazione; anche dolore, pungente, vivo.
Rimestando con la lametta nelle mie carni, tra gli incavi del mento e nelle pieghe dei polsi, mi accorsi con sgomento che il dolore proveniva dalla lucida consapevolezza che quel corpo che maltratto e offendo da tutta una vita è il mio corpo, il mio unico compagno, un dono di carne e sangue che, in un lontano passato, avevo pur sempre percepito come la promessa di una reale concretizzazione di tutti i miei desideri.
Quel corpo che mi eccedeva, che mi stava largo e stretto al tempo stesso, che maneggiavo goffamente vergognandomi delle sue funzioni fisiologiche, delle sue imperfezioni e della sua lentezza, io lo odiavo con tutto me stesso. E, in fondo a quel baratro di odio, inaspettatamente, trovai un amore viscerale, marcescente perché soffocato. Era quell’amore a potenziare così tanto l’odio. Un sentimento che non si rivolgeva più soltanto al mio corpo, quanto a me stesso. Perché se il mio corpo appariva così martoriato, decomposto, squagliato, era solo colpa mia, della mia inadeguatezza. Della mia mancanza di voglia. Lo amavo, ma non ne ero capace. Ero il classico genitore alcolizzato che non riesce ad amare i suoi figli più del suo odio.
E io, amo me stesso di un amore infelice, perché non sono in grado di concretizzarlo. Di rendere giustizia ai miei desideri, ai miei progetti, e soprattutto alla promessa ancestrale dovuta a quel corpo: quella di vivere, vivere davvero.
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