Per gli amanti dei gianduiotti arriva una triste notizia: l’azienda Pernigotti di Novi Ligure, specializzata nella produzione di cioccolatini, torroni, uova di Pasqua e preparati per il gelato, ha deciso di chiudere i battenti mettendo fine ad una tradizione dolciaria di oltre 160 anni di storia.
Ad annunciarlo una nota dell’azienda che spiega che le cause di tale decisione risiedono nella situazione di crisi determinata dal calo dei volumi di vendita e dal decremento del fatturato che l’azienda non è riuscita a contrastare.
La notizia non ha di certo lasciato “l’amaro in bocca” solo ai golosi ma, soprattutto, anche alle persone che vi lavoravano, a cui notizia del licenziamento è stata data dai sindacati. La proprietà dell’azienda era nelle mani del gruppo Toksoz che dopo la decisione di fermare le macchine ha esordito:
Sono cinque anni che facciamo proposte all’azienda, a fronte di bilanci mediamente in rosso per 10 milioni ogni anno e di 4 amministratori delegati che si sono avvicendati. Continuavamo a vedere questo “bagno di sangue” nella gestione e per anni ci hanno dato dei gufi, tanto che anche ad Eurochocolate di Ottobre la proprietà negava che lo stabilimento di Novi avesse problemi. Adesso hanno deciso di chiudere ma, la follia di tutta la vicenda è che hanno perso 50 milioni di euro per arrivare alla chiusura.
I proprietari hanno manifestato la loro volontà di mantenere in Italia soltanto la rete marketing per le vendite, mentre la produzione dovrebbe essere spostata totalmente in Turchia, mantenendo però inalterato il marchio italiano.
Una mossa che ovviamente si ripercuote sui dipendenti dello stabilimento, circa 200, di cui 100 rischiano il posto di lavoro; un film già visto che, negli ultimi mesi si è riproposto in maniera sistematica: Embraco, Melegatti, Beakert, Magneti Marelli, Hag, aziende diverse tra di loro ma accomunate dalla decisione di chiudere e dal licenziamento di chi è padre di famiglia.
Rassegnati, i lavoratori di Novi Ligure si sono già messi all’opera per cercare delle soluzioni: la Pernigotti ha proposto una cassa di integrazione straordinaria per cessazione di attività, per poi procedere all’invio delle lettere di licenziamento
La notizia della chiusura dell’azienda ha provocato l’indignazione del presidente della Coldiretti, Ettore Prandini:
E’ il risultato del circolo vizioso della delocalizzazione che inizia con l’acquisizione dei marchi del Made in Italy, continua con lo spostamento all’estero delle fonti di approvvigionamento della materia prima agricola e si conclude con la chiusura degli stabilimenti con effetti sull’occupazione e sull’economia nazionale del campo della tavola.
Ma perché sempre più aziende italiane migrano all’estero?
Tra il 2009 e il 2015 il numero delle partecipazioni all’estero delle aziende è aumentato del 12,7%; se si pensa che verso la fine del decennio i casi ammontavano a 31.672, mentre nel 2015 sono saliti fino a raggiungere i 35.684.
Secondo gli esperti è più vantaggioso per le aziende italiane finire in mani straniere: negli ultimi anni le 500 imprese tricolori acquistate dalle multinazionali estere hanno accresciuto l’occupazione, migliorato la loro produttività e aumentato il fatturato.
I settori che maggiormente trovano facile accesso al mercato internazionale sono la fabbrica di prodotti di elettronica, iprodotti chimici e farmaceutici, il settore tessile e la fabbricazione dei mobili.
Nessuna di esse ha fatto perdere l’identità nazionale del brand; ne è un esempio lampante Valentino, che pur essendo proprietà di un emiro del Quaatar, viene considerato da tutti come marchio ancora italiano.
E’ un luogo comune piuttosto diffuso che quando un marchio storico italiano del Made in Italy acquista un’altra cittadinanza perda automaticamente valore. E’ testimoniato dal fatto che quando le aziende diventano parte di gruppi multinazionali adottano migliori sistemi di organizzazione del lavoro contribuendo a creare il 16,4% del fatturato e il 13,4%del valore aggiunto.
I principali Paesi di destinazione sono gli Stati Uniti, la Francia, la Romania, la Spagna, la Germania, il Regno Unito e la Cina.
Chi pensava che la meta preferita dei nostri investimenti all’estero fosse l’Europa dell’Est -segnala il Segretario della CGIA (confederazione generale italiana degli artigiani)- rimarrà sorpreso. A eccezione della Romania, nelle primissime posizioni scorgiamo i Paesi con i quali i rapporti commerciali sono da sempre fortissimi e con economie tra le più avanzate al mondo.
Ma come si suol dire, “a volte ritornano”: La CGIA ha spiegato che a seguito degli effetti della crisi economica, molte imprese sono ritornate in patria; esempi significativi sono i casi di Benetton, Bottega Veneta, Fitwell, Geox, Safilo, PIquadro, Wayel, Behjelli, Giesse e Argotractors.